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12 Gennaro

SANTA TAZIANA MARTIRE

Quantunque l’imperatore Alessandro Severo non sia stato un crudele persecutore della religione cristiana, anzi al dire di qualche grave istorico (1) sia stato più tosto ad essa propenso, nondimeno è indubitato, che sotto il suo impero Domizio Ulpiano, abusando della grazia del principe, il quale avealo fatto prefetto del pretorio, una delle più grandi cariche dello stato, suscitasse contro la religione di Gesù Cristo persecuzione non piccola.12 gennaio santa taziana

Imperocchè vennegli fatto di ottenere la pubblicazione di un editto, col quale a crudelissime pene venivano condannati coloro, che non sacrificassero agli idoli, ed essendo accanito inimico del nome cristiano facea con ogni diligenza cercare i seguaci del Redentore, o perché disgraziatamente apostatassero, o perché venissero co’ più orrendi supplicii messi alla morte. Tra coloro che in tal tempo ebbero la bella ventura di riportare la palma del martirio fuvvi ancora Taziana, della quale brevemente narreremo l’eroica intrepidezza e costanza degna invero della commendazione più grande. Era essa romana, nel fior dell’età, di nobilissima stirpe, e di forme sì leggiadre e belle da venir mostra a dito, sicché con invidia riguarda vasi chiunque avrebbe la sorte di ottenerla in isposa. Quanto perl avvenente, altrettanto riservata e modesta. Prevenuta dal celeste amatore dispregiava terrene nozze, praticava con la maggiore osservanza la legge di Cristo (2), e forse il suo cuore anelava il momento di poterla confermare col sangue. Né l’occasione tardò a presentarsi. Imperocchè riferitosi esser lei cristiana, fu a viva forza condotta innanzi ad Ulpiano, il quale con buon viso accoltala, e rallegratosi in vederla giunta in suo potere, cortesemente le disse, esser d’uopo che si sottomettesse alla legge, adorasse i numi, ed uscisse alla perfine da quegli errori, in cui per altrui fina malizia, e per sua grande semplicità era innocentemente caduta. Rabbrividì all’empio discorso la santa donzella, se non che messele in bocca le parole da quello spirito divino, che come Gesù Cristo promise, parlerà sempre ne’ martiri di ogni età, di ogni tempo e di ogni sesso, opponendo gentilezza a gentilezza rispose: “io sono, come ti è noto, soggetta all’imperatore: se tu vuoi che io vada al tempio, piaccia a te di venirvi con esso meco”. Confortatosi a tali detti il tiranno, cui grandemente spiaceva il dovere infierire contro sì vaga fanciulla, assai di buon grado insieme con la sua corte accompagnolla al tempio.

Tutti erano in festa, solo i cristiani occultamente sospiravano, non sapendo quello che Iddio avesse alla sua serva ispirato, e forte temendo della debolezza del suo sesso. Appena prò fu a lei mostrato il simulacro di Apollo, cui doveva offerire incensi e preghiere, divenuta maggio di sé stessa, levati gli occhi al cielo, e chinate le ginocchia al suolo “sia onore a te, esclamò, o Cristo, creatore delle visibili e delle invisibili cose: tu che promettesti soccorso ai tuoi seguaci, glorifica te stesso in me tua umile ancella,e vegga una volta il cieco gentile in chi stoltamente spera e confida”. Non avea peranco compiuta l’orazione, che tremò la terra, si fracassò la statua, crollò parte del tempio, molti astanti perirono, e videsi il demonio, il quale rabbiosamente gridava: niun altro essergli stato sì dannoso come Tanziana, la quale dopo novantotto anni avealo astretto con tanto suo scorno a partirsi. Il tiranno confuso e sbigottito volea pur esso fuggirsi, ma la cristiana donzella per maggiormente schernito scongiuravalo a rimanersi, ed a portare soccorso al suo dio così spaventato ed afflitto. Se non che riavutosi alcun poco dal timore Ulpiano si diede a credere essere stato il tutto opera di magiche incantazioni, e però per non essere più a lungo beffato, ordinò che il caro volto della donzella si percuotesse di schiaffi, e che le strappassero le palpebre degli occhi. Eseguirono prontamente i carnefici il duro comandamento, e la vergine non solo dolevasi, ma sfidava il tiranno medesimo che, rabbioso d vedersi da lei vinto, comandò che violentemente le venissero gettati in viso i frammenti della statua già rotta. L’umile Taziana ringraziava allora il Signore e benedicevalo, perché si mostrasse con esso lei sì amoroso e buono. Intanto una insolita luce sfolgoreggiò improvvisa, e si ascoltò una voce, la quale diceva, che sarebbero tutti morti, se non avesse quella donzella pregato per loro conversione. A tale prodigio molti degli astanti divenuti ad un tratto discepoli di Taziana cedettero in Cristo, e dopo aver con grande costanza sperimentato l’eculeo furono per ordine del tiranno decapitati. Un trionfo sì bello della religione cristiana non bastò ad illuminare il perfido Ulpiano, il quale nel dì appresso fattasi venire innanzi Taziana ora con gentili ed ora con aspri modi insistette, perché deposta una volta la ferocia uscisse dalla cecità, provvedesse al suo ben essere, e sacrificasse agli dei.

Vedendola però sempre più ferma, comandò che spogliata nuda le venissero a brano a brano lacerate le carni. Il Signore però che sostiene i fidi suoi servi, e che non confonde giammai chi in esso lui confida, fece sì che in vece di vivo sangue puro latte sgorgasse da quelle ferite, e che un soave e non mai inteso odore per ogni’intorno si diffondesse. Non si arrese neppur questa volta Domizio, e persuaso sempre più esser ciò un puro effetto di magia, cosa alla quale soverchiamente in que’ tempi credevasi, impose che viepiù su quella delicata giovane s’infierisse, e che le fossero villanamente gittati in volto que’ brani di carne che dal suo stesso corpo cadevano. Voce di lamento non usciva dal labro della fanciulla, anzi pregava affettuosissimamente il suo Dio ad aggradare il sacrificio delle sue membra, come accettato avea quello di tanti illustri martiri, che preceduta l’aveano. Sdegnato viepiù Ulpiano, e tornatogli vano ogni argomento, ordinò che di nuovo spogliata delle sue vesti venisse a quattro pali legata, e che da dodici manigoldi fosse crudelmente battuta. Ella peraltro confortata dal suo celeste sposo non sentiva dolora, né si ristava dal rimproverare il tiranno, e dall’esortarlo ad uscire dalla sua cecità, e a confessare quel Dio che con tanti miracoli chiarificava la sua ancella. Un amico del tiranno, che a caso ritrova vasi presente, disse allora ad Ulpiano, che Taziana operava solo tali cose per essere un’empia maliarda, e però lo consigliava a rimetterla in carcere, ed a vincere la forza de’ suoi incantesimi facendola dal capo ai piedi ungere con grasso liquefatto e bollente: assicurandolo esser questo un sicurissimo esperimento.

A che non porta la cecità della mente? Quel cuore che non si era commosso a tanti prodigi piegossi di subito al consiglio di un perverso amico, e però venne Taziana rimandata in prigione. Fattala il dì seguente richiamare il prefetto, e non potendola in alcuna guisa vinceer, per farla finita né più sostenere l’aspetto di lei, volle, siccome portava un empio e barbaro costume, che venisse nel romano anfiteatro esposta alle fiere. Appena i curiosi spettatori videro comparir nell’arena l’innocente fanciulla furono tocchi da un insolito sentimento di pietà, ed amaramente si contristavano, perché una giovinetta sì vaga e sì nobile dopo tanti strapazzi per una vana caparbietà dovesse morire preda delle barbare fiere. Postasi Taziana in ginocchio nel mezzo dell’anfiteatro, rivolse come avea costume gli occhi al cielo, e lieta della vicina palma aspettava l’istante, in cui le fameliche belve avrebbero fatto pasto delle delicate sue membra. Ma che? Uscita furiosamente una lionessa, appena vede la giovanetta, anziché avventar lesi, soffermasi pacificamente ad alcune aride ossa, che a caso in quell’arena trovavansi. Lasciasi allora un digiuno leone il più feroce di quanti eran stati mandati dall’Africa: esce frettoloso con aperte canne, e sbuffando sdegno e furore volge ad ogn’intorno gli avidi sguardi: ma depone ad un tratto la natia fierezza, prostrasi davanti alla martire, e ponesi vagamente a scherzare, non altrimenti come far suole un vezzoso cagnuoletto, allorquando vada incontro alla sua cortese padrona. In mezzo all’universale ammirazione e silenzio scatenasi per ultimo la più rabbiosa pantera che abbiasi in serbo, ma giunta fuori della saracinesca soffermasi immobile, riguarda i circostanti, e quasi tocca da venerazione non ardisce inoltrarsi. Il popolo esterrefatto e stupito non sa cui attribuire il prodigio non peraltro insolito, e ad una voce dimanda grazia per l’infelice, dicendo che gli dei non volevan la morte di sì cara donzella. Il solo Ulpiano, confuso ma non vinto da tanti prodigi resiste alle pubbliche voci, e vuole che sia Taziana chiusa novellamente in prigione. Il dì vegnente, avendo con nuovi argomenti tentata indarnno la costanza di Taziana, questo nuovo Faraone comandò che spogliata nuda fosse in alto appesa, e che con pungenti uncini le fossero a viva forza lacerate le carni. Ella però lungi dal sentire dolore trovavasi così confortata, che meglio non sarebbesi giaciuta in un letto di morbidissime piume. Ordina allora Domizio che sia incenerita dal fuoco; ma le fiamme pietose di quel’inumano la circondano è vero, ma per rendere più grande il prodigio non osan neppure di brugiarle i lunghi capelli, che disciolti le pendevano intorno al collo.

Disperato di più non sapere inventare tormenti ordina il tiranno, che le sia rasa la chioma, e che fuori della città le sia troncato il capo. A tale comandamento giuliva e frettolosa, come sposa novella che corre al talamo. Taziana rivolse i passi al luogo del supplicio. Curvò le ginocchia al suolo, ed avendo riferite grazie al Signore per la fermezza che finora le avea dato, e di cuore pregandolo a non abbandonarla in quell’estremo punto, piegò il collo, e cadendovi sopra la scure ne recise immantinente il capo. Udissi allora una celestiale armonia che dicea: vieni o eletta, vieni o fida a possedere quella corona, che ti fu preparata fin dal’eternità, entra nel gaudio del tuo Signore. Era la schiera degli angeli, che accompagnava quell’anima bella al cielo. Morì questa santa vergine nell’anno di nostra salute 227, il primo del santo pontefice Urbano, ed il quarto dell’imperatore Alessandro Severo. Il vescovo Retorico con tutto il clero essendo poi venuto in quel luogo racchiuse quel sacro corpo in una teca di cristallo, e così fu seppellito nella regione XIII. Moltissimi furono coloro, che cedettero in Gesù Cristo, ed è fama che il tiranno nella medesima ora, in cui moriva Taziana, lacerasse rabbiosamente le sue carni, e che preso dai dolori sospirando e gemendo esclamasse: abbi pietà di me, o Do de’ cristiani, perocchè so bene di avere irritato il tuo nome, e di aver tormentato una verginella innocente: siccome però il suo dolore rassomigliava a quello di Antioco, così non fu la sua preghiera udita, e finì colla morte i scellerati suoi giorni. Il martirologio romano fa brevemente menzione di questa santa, dai greci anche della Daziana, e ne assegna la festa il 12 gennaro. Ne parlano i Bollandisti sotto il giorno suddetto, riferiscono il principio ed il fine degli atti del martirio, che il Baronio disse trovarsi manoscritti nell’archivio di santa Maria Maggiore; ma vedendo in essi grande somiglianza con quelli di santa Martina dubitano che Martina e Taziana non siano la stessa persona. Più a lungo poi ne ha scritto il padre Antonio Gallonio prete dell’oratorio nella storia delle vite delle sante vergini romane da lui fornite di dotte annotazioni (1), opera che viene pure dai suddetti Bollandisti citata. Così patì e morì Taziana, la quale nell’età sua più bella e fiorita vincendo la debolezza del sesso, e superando i più squisiti tormenti è di ben forte rimprovero a tutti que’ cristiani, i quali non hanno la costanza, non già di esporsi e di reggere alla morte per confessare la divinità di Gesù cristo, ma non si studiano neppure di vincere le proprie passioni, di rinunciare alle vanità, e di vivere siccome devo ogni seguace del vangelo.

(DEL CAV. FRANCESCO FABI MONTANI)

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