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Primavera a Muro Lucano

Capitolo I

Una rigida giornata di febbraio 1726 a Muro Lucano. Domenico Maiella, il sarto del paese, sta seduto sul tavolo solido e largo, situato nel mezzo dell'unica stanza, e lavora da parecchie ore, curvo sulle lise giamberghe e brachesse da rammendare. Ad un tratto alza gli occhi stanchi, si appunta con gesto abituale l'ago sul petto, e si soffia sulle dita intirizzite.
Dalla finestrella rabberciata della sua casa sul Pianello volge lo sguardo al panorama del paese. Sullo sfondo di un cielo di piombo, le case di Muro si stendono, aggrappate le une alle altre, dal campanile della Cattedrale sulla vetta fino al torrente della valle. Sotto i tetti, bianchi di neve, sormontati da fili di fumo strapazzati da refoli di vento, esse sembrano più scure e squallide. Che paesaggio melanconico!
Per l'impiantito della casa si aggira, con leggero strascico dei passi indaffarati, sua moglie Benedetta Galella. Tra qualche mese lei attende con trepidazione un altro bambino. Sarà il quarto dopo le tre figliuole: Brigida che è già ormai una donnina e sa aiutare, con sussiego un po' rumoroso, la mamma; Anita che ora all'angolo del tavolo è tutta intenta a compitare dal sillabario i segni di lettura, inseguendoli col ditino; e poi Lisabetta un batuffolo rosa che dorme nella culla.
Nell'animo semplice del povero sarto sembra che l'inverno senza sole, lo squallore del suo mestiere e la preoccupazione della sua famiglia in aumento abbiano lo stesso gelido volto, e prega che Iddio gli mandi un tiepido raggio di sole a portare un poco di primavera nella sua casetta ...
Ed il raggio di sole primaverile sbocciò nell'umile casa del sarto di Muro, con il sorriso del bimbo, che nacque la mattina del 6 aprile 1726: Gerardo.
Al ritorno dalla Cattedrale, dove il neonato era stato portato a battezzare nello stesso giorno, la mamma, riprendendosi sul seno, dalle braccia delle comari felicitanti, la sua creatura, imbacuccata tra fasce e trine, esclamò:
-Gerardo, figlio mio, che tu sia benedetto!
Domenico, il padre, stretto nel vestito di velluto della festa, si asciugò in disparte due lacrime felici che gli scorrevano sulle gote. Ora la casa era inondata di luminosa gioia che si sprigionava dagli innocenti trastulli di Gerardiello. Quando dalla mamma o dalle sorelle veniva condotto in chiesa, i suoi occhioni si riempivano di meravigliose visioni, guardando le aureole dei santi, i luccichii dorati delle sacre funzioni, e il balenio delle fiammelle delle candele. Ritornato a casa cercava di riprodurre quello che aveva visto. Da altarini improvvisati, con paramenti rimediatigli dal padre e con la collaborazione delle sue sorelle, in funzione di chierichetti, egli celebrava i suoi riti sacri con graziosa compunzione. Mamma Benedetta si fermava un istante, tra una faccenda e l'altra, per ammirarlo commossa: "Figlio mio caro, sii benedetto, sii benedetto!..."
Nella primavera del 1732 Gerardo ha ormai sei anni. Una sera, ritornando a casa, corre dalla mamma, affannato, gioioso, con la bruna testina scarmigliata:
-Mamma, mamma: guarda che t'ho portato.
E le presenta un panino, bianchissimo in confronto del pane grossolano e scuro, che si è abituati a vedere in famiglia.
-Chi te l'ha dato, Gerardo?
-Un bambino bello bello che ha giocato con me.
"Il figlio di qualche signore di passaggio per il paese" pensa la mamma.
Ma la faccenda dei panini bianchi si ripete ancora per due, tre volte. I familiari diventano più interessati; mamma Benedetta insiste:
-Gerardo, ma chi è questo fanciullo?
-E' il figlio di una bella dama.
-E ti ha detto come si chiama il fanciullo? Come si chiama la dama? Gerardo non aveva mai pensato ai nomi.
-Oh mamma! E' una signora tanto bella!
Il visetto si illumina di contentezza al ricordo. Si incarica la sorella Anita di svelare il mistero. Quando Gerardo esce di casa, ella lo segue senza farsi vedere. Con passo svelto egli si dirige lungo il sentiero sassoso del Rescio. Scende, arriva al torrente, attraversa il Ponte del Diavolo e riprende il suo trottorellare in salita sull'altra riva.
"Ma dove va?" pensa Anita sempre più curiosa. Dopo un buon chilometro di strada, Gerardo arriva alla Cappella della Madonna di Capodigiano.
Molti anni addietro i Muresi devoti avevano edificato questo piccolo santuario alla Madre di Dio sulle rovine di un tempietto pagano sacro a Giano. Meta di pellegrinaggi e di sagre paesane in determinati giorni, restava solitario e vuoto per la maggior parte dell'anno.
Bianca contro il cielo limpido, la chiesetta sembrava adagiata
sul tappeto di smeraldo punteggiato di gemme del prato circostante, in piena fioritura primaverile: in alto le rondini garrivano, volando intorno al piccolo campanile. Gerardo spinge la porta socchiusa ed entra nel piccolo tempio. La sorella lo segue e s'inginocchia in un angolo inombra. Ma ora sta forse vaneggiando per la stanchezza della corsa dietro il fratello o è realtà quello che sta succedendo davanti al suo sguardo? ... Gerardo si è inginocchiato con le manine congiunte sulla soglia dell'altare, fissando lo sguardo verso la statua della Madonna, seduta, che tiene sulle ginocchia il Bambino Gesù.
Ad un tratto l'immagine di Gesù si anima, si volta, sorride al nuovo arrivato. Scende dall'altare ed è accanto a Gerardo.
I due bimbi si prendono con le manine, ridono, si parlano egiocano come due amici, sotto lo sguardo compiaciuto della Mamma Divina.
A gioco finito, c'è il commiato:
-Arrivederci, Gerardo.
-Arrivederci ... a domani.
E la Madonna, mentre riprende in grembo il Bambino, si china verso Gerardo e gli consegna il panino bianco, con un sorriso materno. Gerardo lo prende felice:
-Grazie, signora, grazie. Arrivederci ...
Ancora uno sguardo e poi si ritira. Passa davanti ad Anita, che commossa, inebetita, sta inchiodata nel suo angolo: non la scorge, e di corsa si avvia per il sentiero in discesa, verso la casa a portare il panino bianco alla sua mamma.
Le rondini volteggiano ancora nell'aria profumata del vespro, inebriandosi del tiepido sole di quella miracolosa primavera di Muro ...

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