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Il padre dei poveri

CAPITOLO XIV

169. Il traslocamento a· Materdomini. 170. Quale fu in genere la condotta del Santo nel Collegio di Materdomini. 171. Gerardo è destinato all’ufficio di portinaio, nel quale si guadagnerà il bel titolo di Padre dei poveri. 172. I poveri vanno a lui, come i figli al padre. 173. Egli come padre li accoglie. 174. Un’escursione a Muro. 175. Vi opera una guarigione miracolosa. 176. La carestia del 1755. 177. Il padre dei poveri provvede loro nelle vesti, nel fuoco, nel cibo. 178. Prende cura delle anime. 179. Speciale fu la conversione di una giovane ingolfata nel peccato. 180. Un’estasi in porteria a suono di flauto. 181. Trasporti d’amore verso Gesù sacramentato. 182. Una. nobile contesa.

169. Per non interrompere il racconto delle cose meravigliose che S. Gerardo fece in Napoli, tanto nella prima, quanto nella seconda volta che vi dimorò col P. Margotta, non abbiamo ancora parlato della sorprendente carità che esercitò dal Novembre 1754 al Marzo 1755 in Materdomini, quando vi fu mandato dai Superiori, perchè si sedassero quei rumori che della sua santità s’erano sollevati nella metropoli. Ne parliamo ora, tornando alquanto indietro, per non rimuovere più la narrazione dal collegio di Materdomini, dove lo vedremo, tra continui miracoli, sostenere l’ultimo officio, intraprendere l’ultimo viaggio, sopportare l’ultima malattia e finalmente spiccare il volo al cielo. Fu dunque sul principio di Novembre del 1754 che vi venne per pochi mesi, quando fu la prima volta rimosso da Napoli. Allora non vi trovò più come superiore della casa, il P. Giovenale; perchè fin dal mese di Agosto gli era stato sostituito il P. Caione, quello stesso che sei mesi prima nell’infermeria di Pagani aveva assistito ad un’estasi di lui. Il P. Gaspare Caione nacque a Troia, città vescovile del regno di Napoli, addì 4 agosto 1722. Egli medesimo, nel processo di beatificazione di S. Alfonso, ci apprende che si era incamminato per la carriera degli offici forensi e contava ventidue anni, quando nella sua città natale assistette ad una missione data da S. Alfonso e dai suoi compagni. In quei giorni di grazia lo Spirito Santo gettò nell’animo di lui il germe della vocazione alla vita religiosa. “Intesi predicare il Servo di Dio (così egli) e benchè non gli avessi parlato personalmente, pure, vedendolo povero e rattoppato nelle vesti, modesto, sempre raccolto in se stesso e predicare con fervore apostolico, feci gran concetto della sua non ordinaria santità, e fin d’allora cominciò a lavorare la grazia in me di abbandonare il mondo. Nell’anno 1751, colla divina grazia adempii la mia vocazione, sopra tutto indottovi dalla lezione di quel suo librettino sulla vocazione religiosa, e così entrai nel noviziato, ricevuto dal servo di Dio”. Con quale fervore egli si comportasse già dal principio della sua carriera religiosa, e quante prove egli desse di virtù e di prudenza, si può inferire da ciò che, appena due anni dopo emessa la professione, S. Alfonso lo destinò a reggere la comunità di Materdomini. Per lungo tempo egli sostenne quella carica. Nel 1764 lo troviamo, in qualità di consultore generale, ad assistere al capitolo generale, celebrato sotto la presidenza dello stesso S. Alfonso, già vescovo di S. Agata. Anzi in questo capitolo egli tenne le parti di segretario. Nel 1779, essendo stato dato alla nostra Congregazione il collegio che i Gesuiti avevano in Benevento, il P. Caione ne fu nominato rettore: e di questo Collegio ebbe egli più volte il governo. La sua morte avvenne addì 30 di ottobre 1809. Missionario instancabile, religioso santo, uomo dotto, il Caione era degno di essere superiore del santo fratello e di essere l’ordinatore e regolatore delle ultime operazioni di quella vita preziosa. Questa vita, quando più avvicinavasi al suo termine, tanto più luminosamente spandeva i raggi della sua sempre crescente santità. Imperocchè il Santo diceva: Quel medesimo Iddio che fu ieri, questo medesimo è oggi, e così, spronando se stesso al continuo adempimento del suo voto di fare in tutto il più perfetto, continuò a vivere in Materdomini, come aveva vissuto a Deliceto, in modo che si guadagnò l’ammirazione di tutti. Egli vedevasi, come per il passato, sempre umile e paziente, sempre amante della fatica, sempre raccolto ed unito con Dio. Qualunque incombenza venissegli affidata, mostravasi sempre ugualmente pronto ad abbracciarla. “Ogni impiego, dice il Tannoia, era proprio per lui : cuoco, panettiere, portinaio, tutto seguiva con indifferenza, perchè in ogni impiego, come ei diceva, riconosceva gusto e volontà di Dio”. Volontà di Dio e non più! Abbiamo già letto nel suo rendiconto di coscienza quale dichiarazione avesse fatta : Certi hanno l’impegno di far questo o quello; ma io ho solo l’impegno di fare la volontà di Dio.

170 . Fin dal primo giorno della sua venuta a Materdomini si manifestò la carità sua ver so il prossim., Era in quel tempo una parte degli studenti della Congregazione, quelli cioè che studiavano filosofia , nella casa di Materdomini. Fra questi vi era il fratello Pietro Picone, giovane, che dalla sua professione, fatta il giorno di S. Luigi dell’anno precedente, era stato affetto di etisia.
Già in fin di settembre (attesochè Gerardo era venuto per alcuni giorni da Napoli), il giovane stava in cattivissimo stato di salute; e poichè il caritatevole fratello, in conformità di questa sua risoluzione: Visiterò più volte il giorno gl’ infermi, era venuto spesse volte a consolarlo e a rendergli tutti i servigi della più squisita carità , l’infermo si era talmente affezionato a lui, che mi cercò in grazia, dice il Caione, che non l’ avessi rimandato a Napoli, onde averlo per assistente”. D’allora in poi il male fece sì rapidi progressi, che sul cadere di Ottobre l’ammalato si sentiva vicino a morire. “Padre mio (così scrisse, addì 22 ottobre a Ciorani, al suo maestro del noviziato, P. Tannoia), Padre mio, io muoio e muoio assai allegramente, perchè muoio in Congregazione; ed oh! che bella gioia mi dà ora il vedermi colla sottana del SS.mo Redentore; tanto che, se non ci fosse altro nel vivere in Congregazione che conseguire il morire contento e non temere la morte, questo solo basterebbe. Sì certo, Padre mio, questo è un premio che supera tutte le mortificazioni, che possono sopportarsi in Congregazione. Infine, Padre mio, buttato ai vostri piedi vi bacio per l’ultima volta le mani. Addio, Padre maestro; addio fratelli, addio, a rivederci in Paradiso”. Alla gioia di morire in Congregazione dovevasi, per ordinazione della divina provvidenza, aggiungere pel giovane Picene la consolazione di morire assistito dal fratello Gerardo. Infatti, appena venuto a Materdomini, Gerardo, colle debite licenze del superiore, cominciò a visitare il suo caro ammalato, con quanta assiduità e carità si può inferire da questa breve annotazione del P . Caione. “Una volta il fratello Picone disse a fratello Nicola di Sapio , che l’ assisteva, che fosse andato a trovare fratello Gerardo e chiamarlo per suo aiuto. A fratello Nicola ripugnò, perchè era mezzanotte. Or, dovendo per una cosa necessaria recarsi dalla stanza dell’ammalato in un altro luogo della casa, per via si abbattè in fratello Gerardo, il quale veniva a sollevare il povero paziente a quell’ora impropria. Così accorreva ad assisterlo fino alla morte”, la quale avvenne il sabato 9 novembre di quell’anno, cioè cinque o sei giorni dopo il ritorno di Gerardo a Materdomini. Eguale caritatevole assistenza ricevette ancora nella stessa casa di Materdomini il fratello Pasquale, il quale era travagliato da spina ventosa. Gerardo mostrò al povero paziente tanta carità nel visitarlo e nel sollevarlo dal tribolato suo stato, che questi non cessava di lodarlo . “Oh Dio, diceva, come questo fratello è buono cogli infermi! Quanto mi consola coi suoi santi discorsi! Beato chi può averlo per assistente nelle sue infermità”.

171. Poco tempo dopo il suo arrivo a Materdomini, Gerardo fu destinato portinaio della casa. Al ricevere la chiave della porta, disse: “questa chiave mi devie aprire il Paradiso”. E maggiormente godette, perchè a tale impiego ne andava annesso un altro, sommamente caro al suo cuore, la cura cioè di dispensare ai poveri l’elemosina. Egli veramente mostrò di avere per quei meschini un cuore di padre, e la prodiga sua carità più di una volta avrebbe stremate le sostanze della casa, se Iddio non avesse straordinariamente concorso colla sua provvidenza alle grandi e continue liberalità del suo Servo . In molti tratti di questa storia abbiamo avuto occasione di ammirare la carità di Gerardo pel suo prossimo. Questa rarità, si può affermarlo, formava una delle più notevoli qualifiche del suo carattere e della sua virtù. Ecco ancora un fatto che viene molto acconciamente per provare questo nostro asserto. Il P. Margotta durava grandi pene interiori, e fratel Gerardo gli aveva fatto sentire in Napoli, non essere peranco giunto il sospirato momento della liberazione da cotali sofferenze . Tuttavia la sola memoria dell’angustiato Padre facevagli molta pena nel cuore ; ond’ è che, ricordando come Gesù Cristo tolse sopra di se le miserie ed i peccati nostri, chiese per se al divin Maestro l’interno cordoglio di quel Padre . La preghiera fu esaudita . Un giorno, entrando da lui il medico Santorelli , lo ritrovò che scriveva una lettera. Richiesto a chi volesse mandarla: “Scrivo, rispose, al P. Margotta per avvisarlo e consolarmi con lui che sia libero dalle sue angustie”. L’evento comprovò la verità delle sue parole; che, pervenendo presto lettere da Napoli, vi si assicurava ch’ erano cessate nel giorno stesso le angustie e le desolazioni di quel Padre. Ma non basta. Nel medesimo giorno che il caritatevole fratello scrisse a Napoli, smarrì la solita sua giovialità ed apparve in volto pallido ed abbattuto. Non sapendo a che attribuire questo subitaneo cambiamento, il P. Caione; conoscendovi del mistero, ne lo ricercò del motivo, ed egli rispose: Non dandomi il cuore vedere più patire il nostro P. Margotta, mi sono offerto a Gesù Cristo di soffrire in me stesso le sue penalità. Si prolungò per qualche tempo, dice il Tannoia, questo stato di penalità, ma i giorni della prova, accettata con così eroica carità, passarono, e il bel sereno, sempre impresso sulla sua fronte, riapparve novellamente, e per nulla al mondo videsi mai più offuscato in avvenire. Le umiliazioni stesse le più inaspettate, trovandolo sempre pronto ad accoglierle, a mala pena lambivano la superficie del suo cuore. Ne valga d’esempio il fatto riferito da colui stesso, che ne fu causa, per nulla degna di approvazione. Già vedemmo come Gerardo in Napoli aveva imparato l’arte di modellare al vivo crocifissi ed altri simulacri di Gesù Cristo appassionato. Destinato di stanza a Materdomini aveva portato seco varie forme di questi divoti simulacri e, colla licenza del P. Caione, impiegava in quella santa occupazione i momenti liberi; onde “anche al dì d’oggi, dice il P. Landi (il quale scriveva le sue cronache l’anno 1780), con molta venerazione conservansi taluni di questi lavori di Gerardo. Uno dei crocifissi si conserva attualmente in Montella, mandato al sacerdote D. Gaetano Bosco, per collocarlo in una Chiesa o Congregazione, e fu quello dipinto dalle mani del medesimo Gerardo. Un altro, cominciato da Gerardo e, dopo la morte di lui, fatto pingere dal P. Caione, si conserva nella casa di Materdomini, ed invita veramente a devozione chiunque lo rimira”. Avrebbe potuto aggiungerne anche un altro, che tuttora si trova in Vietri di Potenza, come ci fa sapere il P . Berruti nella vita, che scrisse del Santo. Dando dunque opera a lavori di tal genere, sentiva spesso bisogno di colla e colori , di che fornivasi nell’officina del falegname della casa. Questi annoiato del troppo frequente domandare, nascose una volta quegli oggetti, per poter dire di non averne. Ma fratel Gerardo gli diede la mentita col dirgli placidamente dov’era tutto nascosto. Di lì a poco, dovendo il falegname assentarsi e temendo che da Gerardo non gli fossero consumati gli oggetti sovra indicati, stimò di poterlo impedire, mettendo insieme nello stesso recipiente e colori e colla forte che cosi, se non altro, avrebbe ottenuto che Gerardo non potesse servirsene, perchè, messo il recipiente sul fuoco, colori e colla si sarebbero mescolati da non essergli più buoni nell’intento . Come egli aveva pensato, così avvenne. Ma quando il falegname fu di ritorno e, guardato il recipiente, vide lo sconcio avvenuto, fu preso da subitaneo moto di sdegno e, capitategli allora innanzi l’ umile fratello, dette di piglio a un pezzo di legno e lo battè crudelmente. Il Santo, al barbaro trattamento, rispose inginocchiandosi e ripetendo le parole che fu solito a dire in simili frangenti : Batti fratello mio, battimi che hai ragione! L’umiltà disarmò la collera. O fratello mio, ripigliò piangendo il percussore, avresti voglia di essere ucciso da me! Io non voglio il tuo male. E’ stato un moto primo, un impeto di collera, che mi ha trasportato. “Ora chi il crederebbe? (disse poi il falegname ravveduto). Ei non si querelò menomamente con chicchessia della indegna mia condotta, e più ancora mi continuò la sua benevolenza. Dal canto mio, da quel giorno in poi, presi a stimarlo secondo meritava”. Questo falegname era un giovane fratello laico novizio, nativo di Teora, per nome Stefano Sperduto. Il fatto di essersi lasciato sorprendere da un siffatto impeto d’ irascibilità, prova che era un fratello ancora poco avvezzo a reprimere il bollore della sua natura. Ma la grazia di Dio non tardò a renderlo più coraggioso contro se stesso ed a farne un vero modello di virtù religiosa. Fratello Stefano, durante i cinquanta anni che sopravvisse a Gerardo, si compiacque, accusando se stesso, di raccontare l’eroica pazienza usata in quell’occasione dal nostro Santo e, più d’una volta, il suo racconto era ancora bagnato d’amaro pianto. Fratello Stefano morì nella casa di Materdomini ai 26 di ottobre 1805, ed ecco con quali parole si diede avviso alle diverse case dell’Istituto della morte di lui, parole che dinotano l’alta stima che si aveva della sua virtù . “Addì 26 ottobre è morto fratello Stefano Sperduto, dopo aver sofferto mesi cinque di malattia, che gli cagionò, acutissimi dolori , sofferti con pazienza inalterabile, uniformato al divino volere, coraggioso in incontrare la morte per unirsi al Signore, che sempre cercò in vita per mezzo dell’osservanza esatta delle nostre sante regole, dell’ amore ardente a Gesù Cristo Sacramentato ed a Maria SS.ma, della carità verso il prossimo, della costanza nei particolari esercizi di pietà, e dell’amore alla fatica, non vedendosi mai ozioso, o sano o infermo”.

172. Ma ritorniamo al nostro Gerardo , al suo impiego di portinaio ed ai suoi cari poveri. Racconta il Tannoia che la suprema felicità di lui era di dispensare limosine. “La nostra casa (così egli) era talvolta assediata dai poveri. E ne interveniva giornalmente un gran numero; ma non è così sollecita una madre in accogliere i pargoletti figli, come Gerardo era coi cari suoi poverelli. Tutti rimandava contenti; nè punto vedevasi annoiato per le loro soperchierie ed impertinenze. Molti furtivamente presentavansi per duplicata limosina; e quando altri glielo facevano avvertire: Non importa diceva sorridendo, anche Gesù Cristo ruba i cuori”. Dava dunque a tutti senza eccezione, senza accettazione di persone. Se altri gli faceva riflettere che bisognava andare a rilento, affinchè non fossero venute subito meno le forze della casa : No, diceva, sacrificar dobbiamo tutto per il povero, perchè il povero è l’immagine di Gesù Cristo. Di questo tenore andava innanzi sempre poggiato sulla fiducia nella divina Provvidenza e questa non gli veniva mai meno col suo soccorso. In prova di ciò, il Tannoia ci narra questo fatto. Una mattina, esaurito il pane da distribuirsi, corse in cucina e, profittando della licenza generale ricevuta dal Padre Caione, diè di piglio a ciò che s’apparecchiava per il pranzo e andando e venendo, riduceva le cose agli estremi.. Ma, fratello, che fai? gridava il cuoco, che ci resterà per la Comunità? - Iddio provvederà, rispondeva, e subito colle mani piene ritornava a’ suoi poveri, lasciando il cuoco a borbottare e ripetere: Vedremo come andrà a finire la cosa stamattina! La cosa, prosegue il Tannoia, andò a finire, che al momento di minestrare, crebbe in tanta abbondanza quello che era rimasto, da superare ancora per poterne fare ulteriore limosina”.

173. Tra i poveri di Caposele e dei paesi vicini, erano quelli, che s’ astenevano per vergogna dal mendicare . Allora usava ogni industria per far giungere loro il suo soccorso. Studiava ogni mezzo, cercava ogni via per sostentare famiglie cadute nell’indigenza, per togliere dalle strette le povere vedove, per sottrarre dai pericoli le infelici donzelle. Non si dava poi posa, se vedeva che alla povertà si univa la malattia. “Quando in cucina, scrive il Tannoia, non trovavasi cosa propria per gli infermi, per lo meno mandar soleva del pane bianco con un poco di formaggio, affinchè col pancotto si fossero ristorati. Rivoltava per questi anche la dispensa, ed essendovi dei dolci o uva passa, tutto giulivo li mandava loro”. Profittava inoltre delle sue andate in Caposele per visitarli nell’ anima e nel corpo, dando loro santi avvertimenti e provvedendoli della spezieria della casa. Era solito a dire: I poveri ammalati sono Gesù Cristo visibile, corne il SS. Sacramento è Gesù Cristo invisibile. Gl’ infermi, dalla parte loro, lo aspettavano come l’angelo del Signore e, al solo vederlo, si consolavano e si uniformavano al divino volere.

174. Una escursione, che per ordine del superiore ei fece a Muro nel mese di dicembre, interruppe per parecchi giorni l’esercizio di quell’ammirabile carità. Però gli porse l’occasione di fare al nostro P. Negri una profezia che il P. Tannoia racconta brevemente in questi termini “Volendo il P. Negri ritirarsi nella nostra Congregazione, non si poteva quietare, stando sempre disturbato, per le difficoltà che vi erano da parte delle leggi civili. Avvenne che il nostro fratello Gerardo andò per la questua nel suo paese, dal quale nella maniera seguente fu tolto da ogni dubbio. Andando il nostro fratello Gerardo per il paese accompagnato da certi galantuomini, il Negri gli teneva dietro, un poco da lui distante. Egli si volta, mentre erano sotto un portone, lo chiama e gli dice : State allegramente, poichè in men di tre mesi voi entrerete nella nostra Congregazione. Ed infatti così fu: poichè non ancora erano passati i tre mesi, ed il Negri era già ricevuto fra gli alunni della Congregazione”.

175. Fu pure in questa sua breve permanenza a Muro, che operò una miracolosa guarigione. Ecco come si trova raccontata da vari testimoni nel processo di beatificazione. Incontrandosi Gerardo per la strada colla signora Emmanuela Vetromile (che egli amava come madre), le domandò dove andasse e perhè stesse oppressa da tanta mestizia da spargere lacrime. Rispose l’ afflitta donna, che Orsola, sua nipotina, era gravemente ammalata e che il medico aveva dichiarato il male incurabile e che sarebbe morta di lì a poco e finalmente soggiunse: “Vado alla Chiesa dei Padri Conventuali a raccomandare quella povera figlia a S. Antonio di Padova”. Allora Gerardo le disse: Abbiate fiducia in Dio e non dubitate. Ritornate in casa e subito fate in nome di Dio una croce sul petto della figliuola e tre sulla fronte e l’ammalata sarà sana. Seguito il consiglio, la signora vide la sua Nipotina perfettamente guarita.

176. Ritornato a Materdomini, riprese con maggior carità l’officio di portinaio. L’inverno s’era già “inoltrato e il numero dei poveri, dice il P. Tannoia, crebbe dì per dì, tanto maggiormente, perchè la quantità delle nevi cadute, i replicati geli e gli eccessivi freddi avevano reso inabili i braccianti a procacciarsi pane”. Per la qual cosa si videro allora uomini e donne, fanciulli e vecchi, fino a duecento poveri, affamati, battere ogni giorno la porta del collegio a chiedere un ristoro. Intenerito alla vista di tanta miseria, il P. Caione chiamò Gerardo e gli disse: Voi dovete pensare a tutto. Se questa gente non si soccorre, è morta. Io non vi limito, ma vi dò tutta l’autorità per tutto quello che vi è in casa.

177. Immagini il lettore qual uso facesse il Servo di Dio di tanta facoltà. Primamente, non reggendogli il cuore in vedere quui meschini, chi lacero, chi mezzo nudo, volse il pensiero a ricoprirli e difenderli, meglio che potesse, dal freddo : s’impadronì perciò della guardaroba e, toltovi quanto vi era di vecchie sottane, di logore zimarre, di biancherie usate, chiamò il sartore e: Presto, gli disse, presto tagliate e cucite giacche, corpetti, manichetti. Ma tutto questo non bastava all’intento . Bisognavano altri panni vecchi e non poteva disporre se non di quelli che aveva a suo uso. Se li tolse, restò con una sola sottana rappezzata : e tutto contento poté supplire al difetto. Nondimeno la brezza menava gagliarda, ed i poverelli, quantunque coperti, tremavano dal freddo . Come sostenere tal vista? faceva accendere innanzi la casa un grande fuoco e dentro la porteria più bracieri, affinché vi si raccogliessero intorno a riscaldarsi. Fra gli adulti erano anche i fanciulli ed a vederli rattrappiti, versava lagrime dagli occhi e diceva piangendo : Ohimè! Noi abbiamo peccato e questi poverini, benchè innoccenti, debbono soffrire la pena . Poi prendeva tra le sue le loro manine gelate ed, accarezzandoli, gli avvicinava al fuoco. “Si figurava, dice il Tannoia, di vedere in loro la persona di Gesù Cristo innocente che sodisfa per i peccati altrui”. Però non bastava riscaldare tanti poveri : bisognava sfamarli. Erano, l’abbiamo già detto, non meno di ducento e, dando oggi e dando domani, il granaio della casa s’andava vuotando. Temendo che non venisse a mancare il necessario alla comunità, il P. Caione lo chiamò e gli disse: Dà pure quanto vuoi, ma badi che non manchi il necessario alla comunità.- Non si sgomenti Vostra Riverenza, ei rispose, perchè Dio provvederà. - Allora il Padre rispose : Ma tu vuoi miracoli a forza. Vedremo se Dio voglia far miracoli. Ciò detto, andò al granaio, e quale non fu la sua sorpresa in trovarlo riboccante di grano? Levò gli occhi al cielo per ringraziare Dio, e, incontratosi col Santorelli: Medico mio, gli disse, son fuori di me per lo stupore. Voi sapete che il grano era presso che a finire: ed ora debbo dirvi, che essendomi lamentato con Gerardo ed avendomi egli risposto con piena fede DIO PROVVERDERA’ ho trovato il granaio ricolmo. Oh! medico mio, io arrossisco in faccia alla prodigiosa virtù e santità di questo fratello. Ma non fu solo questa volta che dovè stupire innanzi alla prodigiosa virtù del santo fratello, perchè, com’ egli stesso attestò, se lo vide più volte venire innanzi con buone somme in argento, che diceva d’aver trovate incartocciate nel buco della chiave nella porteria. Oltre la moltiplicazione del grano, la divina Provvidenza, per venire in aiuto della carità del santo fratello, operò anche quella del pane. “Fu sentimento comune in Caposele, scrive il P. Tannoia, che moltiplicato si vedesse il pane nelle sue mani”. Infatti uno dei nostri studenti attestò d’ aver veduto coi propri occhi riempirsi di pane i cofani che la carità di Gerardo aveva già vuotati : un altro attestò d’aver trovato, con istupore, ripiena un’arca da lui già veduta vuota. E’ deposto nel processo apostolico che un certo Lorenzo Miniello, artigiano, non trovando come mantenere due figlie, le mandasse a prendere l’elemosina nel nostro collegio . Un giorno che erano venute tardi, Gerardo si rammaricava di non aver più altro , onde soccorrerle. Dopo qualche istante di riflessione, rientrò in casa e ne ritornò con due pani in mano ancora fumanti . Non essendo quella un’ora di cuocere il pane in casa , le due giovani furono persuase d’aver ricevuto quei pani, sul momento da Dio creati . - Un altro prodigio simile a questo, ci viene narrato dal P . Landi. Tra i poveri v’era un giorno una persona civile, che vinta dal rossore, non si presentò con gli altri a ricevere il pane. Finita la distribuzione, il Servo di Dio si ritirava. Gerardo, gli disse un giovanetto di nome Teodoro Cleffi, perchè non pensi altresì per quel povero signore decaduto? O figlio mio, esclamò, e così tardi è venuto ; ora che ho dispensato tutto , Ma aspetta, aspetta ... Rientrato in casa, gli portò all’istante una focaccia caldissima, che non poteva essere stata presa dal forno, perchè quel giorno era spento.

178. Costretto per questa prodigalità del Servo di Dio ad una frequente cottura di pane, il fratel panettiere studiò il modo di porvi un freno. Avendo una volta osservato che Gerardo aveva dispensato ai poveri tanto pane da non lasciarne neppure per la comunità, tacque ed aspettò che venisse, senza darne avviso, l’ora del desinare. Venuta quest’ora, ricorse al P. Caione, dicendogli, che, sebbene avesse cotto quella stessa mattina il pane, pure non ve n’era più per la comunità, per colpa di Gerardo, che l’aveva dato ai poveri. Fu chiamato Gerardo, il quale, dopo aver ascoltato le querele del Padre, rispose : Non dubiti Vostra Riverenza che Dio provvederà: e volto al fratel panettiere: Fratello, disse, andiamo ad osservare meglio, perchè credo che il pane vi sia. Neppure un tozzo, quei diceva, ed affinché non ti ostini a credere il contrario, vieni meco a vederlo. Andarono ed, aprendo la madia, il panettiere, ancora agitato, diceva : Vedi, vedi se vi sia un pane, ma restò con la parola tra le labbra, quando vide ch’ era piena; e mentre il Servo di Dio correva in Chiesa a ringraziare il Signore, egli, rivolto al P. Caione che sopraggiungeva, Padre, gridava, fratel Gerardo è un santo, ed io voleva farlo castigare da Vostra Riverenza. Quando sono venuto da lei, non v’ era un pane, neppure uno solo. Sono ritornato con lui ed ecco ne abbiamo trovati tanti. E’ Dio, Padre mio, è Dio...-Si, si, rispose il P. Caione, è Dio che sta con Gerardo. Lasciamolo dunque che faccia a modo suo, perchè il Signore scherza con lui. Incoraggiato dal concorso così visibile e straordinario della divina Provvidenza, il nostro Santo allargava i limiti della sua carità, e secondando l’impulso del proprio cuore, non si sentiva più contento di sottrarre i suoi cari poveri dalla fame, ma voleva di tanto in tanto procurare loro qualche speciale ricreamento. A proposito di ciò, il P. Tannoia ed il processo apostolico ci narrano questo fatto. Era un giorno di festa ed egli aveva invitati tutti i poveri a mangiare i maccheroni. Quest’invito raccolse nella porteria del collegio un numero di poveri assai maggiore del solito. Laonde, quand’egli era intento a fare le parti, i fratelli, che gli prestavano mano all’opera, dicevano essere impossibile che i maccheroni bastassero a tutti. Nondimanco egli ne somministrò abbondantemente fino all’ ultimo, e tutti videro con istupore che tra le sue mani s’erano moltiplicati a segno da esservene di sopravanzo.

179. Questa misericordia che egli usava a sollevare il prossimo nelle miserie del corpo gli apriva il campo a sollevarlo in quello dello spirito . Imperocchè, come vedeva intorno a se adunati tutti quei poverelli, prima di spezzare loro il pane, gli istruiva nelle cose della fede e nei doveri cristiani. Soprattutto aveva a cuore che andassero ben disposti a confessarsi. Donde veniva che molti, già vissuti lontani dai Sacramenti, si determinassero a gittarsi umiliati e contriti ai piedi dei confessori, Vi fu una giovane, che per più anni aveva deluso il zelo dei padri, ai quali aveva fatto credere d’essere anima spirituale, mentre era infangata nelle più brutte sozzure. A Gerardo, che per lume del cielo ne conobbe l’interno, bastò un discorso per compungerla e indurla a riparare tutte 25 muro lucano le sue confessioni mal fatte. Il P. Landi, che ne racconta la storia, aggiunge: “Lo fece con tanto dolore e lagrime e con una risoluzione così forte e costante, che da quel tempo in poi, è stata lo specchio delle sue compagne, essendosi anche vestita di nero. E così ha continuato per più anni ed ora più che mai continua con comune edificazione quel tenore di vita intrapresa con massimo fervore, e quante volte si ricorda di Gerardo, prorompe in pianto, persuasa che egli è stato per lei un vero angelo di Dio per farle scampare l’inferno”.

180. Chi ama Dio, dice la santa Scrittura , ama ancora il suo prossimo. Avendo dunque veduto, quanta fosse la carità che in quel tempo il Santo sentiva verso il prossimo, è giocoforza dedurne che grande era allora, più che prima, la carità che egli sentiva verso Dio. E veramente questa carità gli era così cresciuta nel cuore che bastava udisse parlare di Dio o che s’accostasse al santissimo Sacramento dell’altare per essere rapito in estasi, o per cadere in deliqui d’amore. In prova di ciò, tanto i suoi biografi, quanto il processo apostolico ci narrano un fatto che avvenne appunto nel tempo in cui distribuiva l’ elemosina ai poveri. V’era tra questi un cieco, di nome Filippo Falcone, Gerardo, che lo conosceva valente al canto ed al suono del flauto, un giorno, per ricreare i poveri, gli disse: Suona.-Che volete che suoni? quei domandò. -Suona, rispose, Il tuo gusto, e non il mio, voglio solo in te, mio Dio: le quali parole erano le prime d’una canzoncina composta da S. Alfonso e già resa popolare. Appena il cieco incominciò la melodia, egli, plaudendo e saltando per gioia, ripeteva quelle parole in fino a che sollevato in alto, restò rapito in estasi con le braccia protese e cogli occhi rivolti al cielo.

181. Mirabili erano poi i trasporti d’amore che allora provava verso il suo Signore nascosto sotto le specie eucaristiche. “Faceva senso ad ognuno, dice il Tannoia, il vederlo tratto tratto volare in chiesa e slanciarsi col cuore verso Gesù sacramentato”. Ai piedi del tabernacolo il suo volto si trasformava e sembrava che vedesse a faccia svelata l’amato suo Dio. Specialmente la notte e nelle ore di maggiore solitudine, com’ erano quelle in cui dopo pranzo gli altri riposavano, se ne stava là costantemente immerso nell’adorazione. Spesso, credendosi solo, parlava ad alta voce a Gesù Cristo, o disfogava gli ardori, che non poteva contenere nel petto, in sospiri e gemiti, tanto da parere che andasse in delirio. Un giorno che il P. Caione volle interrogarlo su questo suo gemere e sospirare, senza rispondere, ei gli prese la mano e se la portò sopra il petto, “Io sentii, disse poi quel Padre, che gli batteva il cuore terribilmente; cosicché non poteva comprendere com’ ei potesse sostenere tanto impeto”. Avendolo una volta interrogato il medico Santorelli, perchè tanto sospirasse: Ah! rispose, se fossi sopra una montagna, vorrei coi miei sospiri incendiare tutto il mondo. Il Santorelli poi attestò che tanto allora il cuore gli palpitava da poterne vedere il palpito di fuori. “Quando poi assisteva alla Messa, depose un testimone nel processo apostolico, il suo volto diveniva come raggiante e la sua mente vedevasi concentrata com’in estasi placida e beata”. Aggiunge il P. Tannoia, che dopo la santa Comunione egli era tutto rapito ed immerso nel suo amato Signore. 

182. Non era dunque da meravigliarsi, se in quel tempo più che nel precedente, si vedesse sempre come invaso da una forza superiore, che non si poteva più nascondere. Essa lo spingeva, secondo gli affetti che gli suscitava nel cuore, ora a sospirare, ora a gioire, ora a gridare. Infatti l’udivano allora di tanto in tanto esclamare: Dolcissimo Gesù, non mi lasciare mai più, oppure: Oh! Dio infinito ristretto in una custodia per me, perchè non posso essere mille volte pazzo per te? oppure: che puoi tu guadagnare con una miserabile creatura? Io tutto guadagno con te, mio Redentore. Un giorno che lo vide ridere allegramente davanti l’altare del Santissimo Sacramento, il P . Caione l’interrogò che mai significasse quel riso. Rispose: Egli m’ha detto che sono un pazzo, ed io gli ho detto: più pazzo sei tu, che sei impazzito per me. Il medico Santorelli, avendolo un giorno osservato che passando innanzi all’altare del Sacramento, affrettava più che potesse il passo , l’interrogò perchè. Che ho da fare? rispose, più d’una volta questo Galantuomo mi ha fatto delle sorprese, volendo alludere ai rapi menti, all’ estasi, che Gesù Cristo in quel lempo in lui operava . Infatti un giorno, che il Santorelli usciva dalla Chiesa dopo essersi licenziato da lui, lo sentì emettere un gran grido e subito tacere. Accorso a lui, lo trovò steso a terra davanti l’altare del Sacramento tutto pallido e fuori dei sensi. Accorsero anche gli altri e lo sollevarono . Ritornato ai sensi, restò prima mutolo e confuso e poi fuggì a nascondersi. Interrogato il giorno appresso dal medico che avesse avuto : Non ve l’ho detto io, rispose, che con quel Galantuomo non si burla? Vedete ora quali sorprese mi fa con tutto che io non troppo lo tratto! A questi deliri amorosi verso Gesù non andavano disgiunti quei verso Maria Santissima. Avendogli dimandato il Santorelli, se volesse bene alla Madonna: Ah! medico, rispose, voi proprio mi tormentate e poscia, pieno di stupore, ripeteva : Vedete che mi va domandando! Vedete che mi va domandando! - Di un’altra scena graziosa, che avvenne tra lui e il P . Strina, uomo di santa vita, ci ha conservata la memoria il P. Tannoia, in questi termini: “Disse Gerardo al P. Strina; Tu non ami Gesù Bambino. E lo Strina replicò: E voi non amate la Madonna. Tutti e due furono tocchi sul vivo. Gerardo avendolo afferrato, e dando nei e suoi trasporti, poco mancò che entrambi non si vedessero in aria in dolce
Estasi”. Conchiudiamo questo capitolo con una testimonianza del P. Caione, il quale per essere stato gran parte delle cose qui narrate, è testimone superiore ad ogni eccezione. “Egli si vedeva esalare dal cuore certi infocati sospiri, che avrebbero intenerito un sasso. E fui costretto a proibirgli quegli eccessi e quegli impeti d’amore, per i quali in ogni angolo della casa si metteva a gridare”.

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