San Gerardo Maiella
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La calunnia

CAPITOLO XXIV

Zelante per la fioritura delle vocazioni giovanili, come si è già scritto, il Santo ricorreva a diversi benefattori per procurar la de>te alle buone giovani, affinchè potessero sistemarsi nei sacri asili claustrali.
Così fece, con licenza dei Superiori, perla sorella di una Carmelitana, che raccomandò al principe di Torella e ai signori Grazioli, ma perché non riuscì ad avere la somma sufficiente per l'accettazione di lei al Monastero di Ripacandida, la indirizzò al Conservatorio d'orfane di Foggia, dove si osservava esemplarmente la clausura.
Mentre si trovava a Lacedonia, a Gerardo si presentò la giovane Nerea Caggiano per dichiarargli che sentiva vocazione al chiostro, ma era priva della dote necessaria per entrare in clausura. Il Santo le promise d'interessarsene e raccolse in città duecento ducati sufficienti per far entrare la giovane al Monastero del SS. Salvatore di Foggia.
Ma la Caggiano non perseverò, perché troppo affezionata alla famiglia. Ritornata quindi a casa, invece di confessare ai suoi cari la sua leggerezza, osò giustificarsi calunniando di depravazione le ottime Religiose e mormorando perfino del Majella, che tanto aveva fatto per far fiorire la vocazione di lei.
Perché Nerea sentiva rimorso di avere resi vani i sacrifici del Santo, osò perfino calunniare anche lui incolpandolo di aver gravemente mancato all'angelica virtù. Ma perché la popolazione di Lacedonia ricordava, edificata, le grandi virtù del Majella, la disgraziata non propalò tale calunnia tra la gente per timore di una reazione popolare. Confidò invece la sozza impostura a un certo D. Benigno sacerdote molto stimato e in relazione con S. Alfonso.
Convinto che la giovane gli avesse confidato la dura verità, D. Benigno ne informò il Fondatore dei Redentoristi con due lettere, per impedire che si mandasse ancora in giro il Majella il quale, "benchè ritenuto pubblicamente come -Santo, non risultava affatto tale da quanto si diceva privatamente di lui".
Nel leggere quella tremenda informazione, S. Alfonso trasecolò e ne rimase così costernato da soffrirne acerbamente.
-Ma come! -disse tra sè. -Gerardo ritenuto da tutti come un angelo, anche perché consacrato alla Madonna e devotissimo di Lei, caduto ora nella ignominia ... Lui, che aveva rifiutato ogni proposta di nozze, perché si considerava esplicitamente "sposato alla Madonna"; lui considerato "angelo in carne " e "giglio umano" cresciuto tra le spine dei sacrifici e quindi illibato; lui, "serafico in ardore", perché di cuor puro e innocente: lui soggetto alle estasi per il suo fervore e l'innocenza che irradiava dal suo sguardo;lui, che operava prodigi e tanto si adoperava per le vocazioni allo stato religioso... Come poteva essere precipitato dalle vette della santità al fondo di un abisso di miserie e di fango?
Queste le ansiose riflessioni del santo Dottore, il quale pensava inoltre ai "cedri del Libano" miseramente caduti nonostante la loro altezza e imponenza.
-Anche il Majella -pensava -è ancora mortale e quindi soggetto alle tentazioni e alle cadute. Ora urge perciò indagare, anche per impedire alla mia Famiglia religiosa un'onta così disonorante, che getterebbe l'ombra più fosca su tutti i miei "figli". Bisogna correre quanto prima ai ripari, per prevenire, smorzare, impedir chissà mai quali conseguenze. Urge una immediata inchiesta per tentar di arrestare o limitar l'incendio, che minaccia di divampare con il serio pericolo di compromettere anche il mio onore, la stima della Congregazione e la dignità dei suoi membri ...
S. Alfonso incaricò quindi il P. Villani, prudente e saggio, di andar subito a Lacedonia per assumere informazioni in proposito.
L'incaricato ubbidì immediatamente e rimase confuso nell'apprendere dalla stessa Caggiano, che'"Gerardo risultava reo"; tanto più che la calunniatrice aveva confermato la sua schifosa accusa alla presenza di D. Benigno Bonaventura.
Informato quindi della penosa conferma il Fondatore, costui scrisse al Rettore di Deliceto che fosse mandato al collegio di Pagani il "colpevole".
Il Santo partì immediatamente sereno, perché con la coscienza tranquilla e, durante il tragitto, pregò con fervore per impiegare bene il tempo e assicurarsi la divina protezione. Egli, ingenuo e retto com'era, non poteva neppure immaginare il grave motivo di quella intimazione, ma ne ebbe notizia quando S. Alfonso lo informò della grave accusa, che gli causava tante preoccupazioni e una lacerante pena.
A tale dichiarazione, il Majella rabbrividì di sgomento, ma non parlò. Nessuna giustificazione a propria difesa, come se fosse stato veramente colpevole.
Ma quel suo silenzio confermava la realtà della gravissima accusa e riuscì perciò allarmante a S. Alfonso, il quale attendeva invece ch'egli si giustificasse. Invece nulla. Gerardo teneva gli occhi dimessi, aveva il viso spettrale, ma le labbra come suggellate.
In questa memoranda circostanza, si trovarono dunque due Santi, uno di fronte all'altro': uno giudice e l'altro accusato. Nel giudice dotto, prudente, ma energico, si notavano dolore, pena e rincrescimento; nell'accusato innocente, puro, umile e mortificato si notavano sgomento, dolore, ma calma perché convinto della propria innocenza.
Perché, dunque, Gerardo non diceva nulla a propria discolpa? La propria giustificazione era doverosa anche perché implicitamente richiesta dal Fondatore, che attendeva almeno una sua parola. Certo il Majella non avrebbe potuto dichiararsi esplicitamente colpevole, perché avrebbe offeso la verità; come quindi interpretare quel suo enigmatico silenzio, che sembrava confermare la oggettività dell'accusa più infamante che avesse potuto colpire un Religioso come lui già in fama di santità, perché realmente dotato d'insigni virtù praticate fino all'eroismo con tenacia, costanza e sacrificio, munito com'era di una volontà di acciaio resistente a qualunque prova?
Se il Fondatore non fosse stato un Santo prudente e dotto, avrebbe forse espulso dalla Congregazione colui che appariva reo di una così grave infamia. Invece S. Alfonso,che aveva tanta stima di Gerardo, non lo trattò come membro infetto da recidersi inesorabilmente. Volle perciò procrastinare una decisione così grave e si limitò a vietare ogni relazione di lui con persone esterne e a privarlo della Comunione.
Il "Giglio" rimase quindi nel "giardino " della Congregazione per continuar ad imbalsamare il sacro ambiente del suo profumo. Durante la dura prova però esso assomigliava piuttosto a una mistica passiflora avvinta alla Croce, che Iddio riservava al Santo per metterne in maggiore evidenza la eroica pazienza e fortezza alle raffiche della tremenda bufera, che lo squassava senza svellerlo e deturparlo. Il candore della sua anima innocente aveva bisogno di questo sfondo tenebroso per meglio risaltare ed essere ammirato con edificazione.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021