San Gerardo Maiella
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Il fanciullo della Raia

Capitolo III

C'era aria di tristezza quel giorno in casa Maiella, mentre la madre affettava, sospirando, la pagnottella di pane scuro e il babbo cuciva cupo e taciturno. Solo la Brigida andava e veniva disinvolta e leggiera, volando con la mente a un dolce nido di sposa, ma la sua gioia non era condivisa dalle sorelle, strette attorno alla mamma, come pulcini spauriti, chiedendo con gli occhi il becchime, e molto meno da Gerardo che sedeva calmo e silenzioso in un canto, tutto intento a rimirare la scena. Era grande e capiva : perciò a un certo punto se ne uscì di soppiatto e, quando lo cercarono, egli già camminava lentamente per la via, in preda a quella strana sonnolenza prodotta dalla fame. Un passo dopo l'altro, si trovò ai piedi del castello e si abbandonò sul prato deserto, lasciandosi cullare dalla brezza che veniva dal bosco vicino e dal tiepido sole di primavera. Vagava con gli occhi su un fiore, un insetto, una nuvola, quand'ecco farsi avanti un fanciullo sconosciuto che gli sorrise, gli posò nella mano un panino bianco e disparve dietro un albero, un cespuglio fiorito. Gerardo lo seguì un momento, poi fissò avidamente il panino e già sgranava due file di dentini afflati. Ma... e la mamma ? ... e il babbo ? ... e le sorelle ? ...

Con due salti fu a casa con la preda calda e profumata. « Chi te l'ha dato ? » gli chiese la mamma.

E lui : « Un fanciullo ».

Così per settimane, forse per mesi, senza che nessuno sospettasse di nulla.

Passarono molti anni e molti avvenimenti. Gerardo era ormai religioso nel collegio lontano di Deliceto e gli era vicino la sorella Brigida con le rughe sul volto e i ricordi sul labbro. Ricordava tante cose e ricordava ancora quel giorno quando il fratello uscì di casa proprio all'ora di pranzo, tornando col bianco panino. A questo punto Gerardo l'interruppe: la sua voce si fece velata e misteriosa : « Ora conosco», esclamò, « che quel fanciullo che mi dava il pane era lo stesso Gesù. Ed io lo credevo un fanciullo come gli altri! ».

E Brigida : « Andiamo a Muro: così potrai tornare nello stesso luogo e ritrovarlo ».

« Non occorre », rispose, « ora lo ritrovo in ogni luogo ».

La grandezza dell'episodio è tutta qui, in questa affermazione posteriore del santo che ravvisa Gesù nel fanciullo della Raia e lo rende il compagno indivisibile dei suoi giorni. Ora, egli dice, ora che sono religioso, ho scoperto chi era quel fanciullo solitario che mi dava il pane, perchè ora lo incontro - lo ritrovo - non più, come prima in un angoletto del paese nativo, ma dovunque io vada : in ogni luogo. Lo ritrovo : il presente, nella sua assolutezza indeterminata, denota appunto una presenza abituale e forse sensibile.

Ma come avrà fatto a conoscerlo ? Quali rapporti saranno intercorsi tra le apparizioni della Raia e quelle posteriori se quest'ultima sono servite a svelare il mistero delle prime ? Avrà forse Gesù continuato a prendere l'aspetto del fanciullo della Raia ? Avrà continuato a dargli il pane di una volta, con lo stesso gesto di una volta ? E come gli avrà palesata la sua vera identità ? A voce ? Per ispirazione interiore ? Sono interrogativi che non trovano risposta dalle brevi parole riferite da Brigida : lampo fugace che attraversa la vita del santo e la riempie di mistero.

Ma, anche limitato a un breve periodo dell'infanzia, l'episodio conserva il suo valore, perché segna una nuova tappa nell'itinerario spirituale di Gerardo. Solo dopo essersi nutrito di quel pane, egli conobbe il Pane dell'altare che finora aveva riguardato come oggetto di curiosità infantile. Narra, infatti, una certa tradizione che, durante la celebrazione della messa, egli fosse solito vedere, attraverso i bianchi veli dell'Ostia, lo stesso Bambino Gesù : posava i piedini sulla mensa, intrecciando con lui una muta conversazione. Poi veniva sollevato in alto in forma di croce e spariva tra le labbra del sacerdote. Il fanciullo ne riportava ogni volta un senso di ribellione e di raccapriccio che sfogava coi presenti. Anzi una mattina l'indignazione giunse a tanto da rincorrere il sacerdote che tornava in sagrestia, gridandogli appresso : « Bella cosa hai fatto a mangiarti il Bambino ! ». E minacciava di denunziarlo al vescovo.

Gerardo, dunque, non conosceva il Pane dell'altare; lo conobbe quando ebbe mangiato il pane avuto su quel prato deserto. Allora i suoi occhi si aprirono, adorò il Signore presente nel ciborio e comprese l'importanza di riceverlo nel proprio cuore. Ma allora lo desiderò con tanto ardore che, per appagarlo, ci volle un miracolo.

Fu, infatti, la brama di quel cibo che lo spinse una mattina verso la balaustra, con l'anima e la bocca dilatata. Ma il sacerdote lo re-spinse bruscamente, perché troppo piccolo, lasciandolo a piangere e a disperarsi da solo. Quante lacrime quel giorno e come amare! La-crime in chiesa davanti all'altare, e lacrime in casa davanti al suo San Michele che continuava a sfoderare la spada sul drago infernale. E le lacrime commossero il cielo. Mentre nella notte seguente i genitori e le sorelle dormivano, una lama di luce tagliò le pareti fuligginose e la luce prese la forma del suo S. Michele. L'arcangelo gli venne vicino, tanto vicino da sfiorarlo con le ali luminose; estrasse dal ciborio un'ostia bianca, gliela posò sulla lingua e disparve nella luce.

« Hai visto ? », diceva Gerardo la mattina seguente alla signora Caterina Zaccardo, « ieri il prete non ha voluto darmi Gesù, ma me l'ha dato questa notte l'angelo San Michele».

Una bravata di ragazzo in castigo ? La supposizione dovette sfiorare la mente dell'orefice Alessandro Piccolo, se, più tardi, quando il fanciullo sarà ormai un religioso, famoso per virtù e miracoli, osò interrogarlo su quel lontano avvenimento della sua infanzia : e Gerardo confermò pienamente la confidenza fatta allora alla signora Zaccardo. E la confermò, secondo il Tannoia, anche al suo direttore di spirito, poco prima di volarsene al cielo.

Quante volte si sarà ripetuto il miracolo ? è un segreto tra Gerardo e Gesù : però siamo certi che quando, a dieci anni, il fanciullo fu comunicato dal sacerdote, ormai il suo cuore era tutto una fiamma.

Così due comunioni, quella ricevuta dalle mani dell'angelo e quella ricevuta dalle mani del sacerdote, stanno alla base della santità di Gerardo e la sollecitano verso la vetta suprema del sacrificio. Cosa meravigliosa ! Questa santità dagli impeti folli si svolge costantemente tra due poli: l'Eucaristia e la Croce. Dal Cenacolo sale al Calvario e dal Calvario ridiscende nel Cenacolo ad adorarvi l'Amore svenato. E i due amori procedono di pari passo, in vicendevole armonia. Non era questo il significato dell'altare-sepolcro intravisto dai primissimi anni ? La sua vocazione col passare del tempo diviene esplicita, ma non cambia direttiva. La prima comunione lo trova all'imbocco della strada che deve percorrere ; l'ultima comunione, il viatico, lo troverà all'altro capo con la convinzione d'aver percorsa tutta intera la sua strada. Una tappa ad ogni comunione.

Ecco perché, dopo aver ricevuto Gesù la prima volta, egli concentrò i suoi sforzi per riceverlo il più spesso possibile. L'ottenne a giorni alterni ed era il massimo che poteva ottenere dal confessore, data la rigida disciplina dei tempi. Ma ogni comunione era un avvenimento per lui. Vi si preparava fin dalla sera precedente ; al mattino piangeva ogni ombra di colpa nella confessione sacramentale e prolungava per ore e ore il ringraziamento, genuflesso sul nudo pavimento della chiesa. In questo modo, col contatto divino, cresceva rapidamente il suo amore. Sentiva che Gesù era divenuto il suo Gesù; che Dio era divenuto il suo Dio, cioè suoi possessi individuali ed esclusivi.

Ma l'Eucaristia, memoriale della passione, gli parlava di sacrificio e di morte; gli parlava di Amore, e di Amore Crocifisso. E Gerardo s'incammina verso la vetta suprema del Calvario con la gioia di chi soddisfa alle attrattive profonde della sua esistenza, con la facilità di chi si sente investito da una forza sovrumana che lo solleva sugli ostacoli. Nessuna tensione in lui, nessuno sforzo atletico sembra che il dolore sia l'elemento naturale della sua vita. Anche quando esso raggiunge le punte più acute e raccapriccianti, conserva sempre una nota festosa che lo redime da ogni parvenza brutale. Pochi hanno crocifisso la propria carne come lui, ma pochi lo hanno fatto con tanta facilità e prontezza. Sappiamo dalle sorelle che, a dieci, dodici anni, già si flagellava più volte al giorno con funi rattorte ; già prolungava per giornate intere i suoi digiuni, sempre con la visione di un Dio crocifisso davanti agli occhi.

E questo l'aspetto più caratteristico della sua santità, tutta volta, per forza di amore, intorno alla passione del Maestro fino a model-lare su di essa la propria carne, i propri affetti e i propri pensieri. Specialmente i pensieri i quali, percorrendo e ripercorrendo ininterrottamente tutti gli stadi della passione, venivano quasi a colorarsi del sangue del Pretorio e del Calvario. Di giorno in giorno, di ora in ora, di momento in momento, egli moveva un passo sul rude cammino, sempre con la croce davanti agli occhi dove era stato crocifisso il Maestro e dove voleva lasciarsi crocifiggere anche lui. Lasciarsi crocifiggere, soffrire: ecco il problema! E nessuno ha mai cercato con maggiore avidità un tesoro, un piacere, una fama, di quanto lui cercasse il dolore. Lo cercava con abilità industriosa, con tenacia indefessa e assidua. Chi glielo procurava, diveniva suo amico. Lo considerava come vicegerente di Dio, che, per salvarlo, gli porgeva i chiodi, le spine, la croce.

Come è sorta questa mentalità nel nostro santo? Noi pensiamo allo sviluppo progressivo e spontaneo della prima intuizione infantile dell'altare-sepolcro, ma non escludiamo il conseguente influsso della spiritualità francescana, attinta attraverso i Padri Cappuccini di Muro e, forse, attraverso un libro allora tanto famoso quanto ora dimenticato: « l'Anno Doloroso » del missionario cappuccino Antonio da Olivadi, morto in concetto di santità il 22 gennaio 1720. Il libro, uscito in Napoli nel 1690, all'epoca della nostra storia aveva raggiunto la quinta edizione. Il successo era dovuto in gran parte allo stile concitato e spumeggiante che risente dell'oratoria del tempo. L'autore non è guidato da un pensiero, ma dal racconto della passione del Signore. Il racconto procede per quadri, dipinti con toni violenti, con immagini rozze e barocche. Il quadro prepara gli affetti, cioè l'unione di amore e di volontà alla volontà di Dio. Come conclusione generale del libro, viene esposta una « mostra di ore per meditare con facilità, del continuo, la santissima passione di N. S. Gesù Cristo, cominciando dalle ore 23 » cioè verso il tramonto. Le ore della notte andavano anticipate alla sera, prima di coricarsi, o posticipate al mattino appena alzati.

Sembra che questa pratica sia stata familiare al nostro santo, che può averla appresa dal libro dell'Anno Doloroso o dalle esortazioni orali dei Padri Cappuccini, innestandola sul tronco originario della propria spiritualità. L'originalità dei santi non è nella novità delle loro teorie, ma nelle conseguenze che ne sanno dedurre per la loro purificazione interiore. Gerardo ha portato alle estreme conseguenze, con una logica spietata e terribile, la follia della Croce, predicata dall'Apostolo e praticata da Cristo.

Se, ciò nonostante, ha conservata intatta la sua serenità, allegra, schietta, vivace, questo si deve alla spontaneità con cui corrispose alla propria vocazione e, soprattutto, alla dolce visione della Madre Divina che lo accompagnò, passo passo, per tutta la vita. Specialmente nei primissimi anni. Leggenda e tradizione ne narrano compiaciute i particolari spesso fantastici e altamente poetici, rendendo sensibile l'intervento della Madonna che fu certamente reale, anche se invisibile. Così una tradizione vuole che proprio in un santuario mariano il santo sia stato rapito la prima volta in estasi. Riportiamo il racconto, riferito nei processi apostolici da un ex-coadiutore redentorista, molto eloquente, ma non altrettanto sicuro.

Gerardo aveva sette anni quando fece con la mamma il suo pellegrinaggio alla chiesa di Materdomini, dedicata a Maria Bambina. Passò cantando di montagna in montagna con una schiera di pellegrini, dietro alla guida che marciava solenne davanti a tutti con l'effige della Madonna issata sul bastone, seguito da una fila di donne coi doni votivi sulla testa. Entrò con gli altri nella chiesa, puntando le ginocchia sul pavimento fino all'altare maggiore; con gli altri gridò la sua fede sincera e violenta. Poi si ricompose in una preghiera sempre più silenziosa, fino a somigliare a un soffio e spegnersi nel nulla. Allora rimase immobile come una statua, come quell'immagine che troneggiava lassù tra i ceri accesi, in una nuvola d'incenso. E la gente sfollava, sfollava lentamente e si spargeva a gruppi sotto gli ulivi, in mezzo ai prati che digradavano rapidamente verso il fiume. Mamma Benedetta restò sola con Gerardo, lo prese per un braccio e gli disse: « Su, su, è ora di uscire».

Ma quegli occhi rimasero sbarrati, sempre inchiodati lassù, verso il piccolo simulacro, immobile tra i ceri e il fumo d'incenso. « Su, su, andiamo, è tardi!». E lo scosse a lungo e lo chiamò per nome. Allora sembrò svegliarsi da un sogno e si avviò, barcollando, dietro alla madre.

Checché ne sia dell'autenticità di questa prima estasi, una cosa rimane certa: il colloquio avviato con Dio il giorno della prima comunione s'intensificò di giorno in giorno, spesso estraniandolo dal-l'urgenza della vita quotidiana. Sembrava allora un uccellino sperduto nelle altezze, costretto di tanto in tanto a calarsi sulla terra, ma ansioso di tornare lassù. Era uno stato di contemplazione che lo faceva apparire ai contemporanei disattenti in veste di sognatore allampanato e invece egli volava sulle vette di Dio.

Pensate: ordinariamente, dopo un lento tirocinio, l'anima riesce a rimuovere ogni attacco alle cose del mondo e unirsi a Dio in un puro atto d'amore. Allora Egli, di quando in quando, interviene direttamente, innalzando le facoltà dell'anima al di sopra della loro natura, attirandole e immergendole nel proprio essere. E questo un dono gratuito che segna il pieno sviluppo delle potenze intellettive, libere ormai dalla tirannia dei sensi e rapite nell'assoluta semplicità della luce soprannaturale ed eterna. Nessuno sforzo umano può meritarlo e molto meno ottenerlo. Solo Dio può chiamare l'anima, consumata dalla carità, a questo stato di contemplazione che i mistici chiamano : « infusa ».

E Dio, liberale come non mai, vi chiamò Gerardo fin dalla prima adolescenza. Non comprenderemmo altrimenti quella preghiera di unione, quelle estasi e rapimenti di spirito che caratterizzarono fin d'allora la sua vita, dando motivo ai più disparati pareri. Perché l'azione prepotente della grazia, trasferendolo dalla terra al cielo, doveva distrarlo necessariamente dalle occupazioni ordinarie, imprimendo alla sua fisionomia un'aria di sogno e lasciandolo facile bersaglio dei censori. Per gli uni - i malevoli - egli era uno stralunato che andava sottoposto a una dose periodica di schiaffi; per gli altri - i cosiddetti indulgenti - era un malato da curare. Solo pochi sapevano comprenderlo e magari sospendere un giudizio precipitoso.

Tra questi pochi vi fu il maestro di scuola. Perché Gerardo ebbe il privilegio, piuttosto raro tra i contemporanei, di procurarsi un'istruzione elementare. Vi mise tutta la buona volontà, anche perché sentiva le prime avvisaglie della vocazione religiosa; eppure di tanto in tanto marinò le lezioni. Quale il motivo? La solita irruenza della grazia che l'inchiodava in un angolo della casa o della chiesa. Ricercato da qualche compagno speditogli dietro dal maestro e ricondotto in classe, piangeva e prometteva l'emenda; tutti però erano convinti che sarebbe tornato da capo alla prima chiamata più gagliarda di Dio. Eppure, fornito com'era di fantasia spigliata, di facile memoria e di vivace sentimento, aveva tale forza di recupero da non restare mai indietro. Sapeva anche farsi amare dai condiscepoli sui quali esercitava un vero ascendente dovuto in gran parte all'emotività del suo carattere buono e generoso, facilmente portato all'ottimismo, all'arguzia che gli fioriva spontanea sul labbro, e anche, perché no? al gioco innocente di qualche sua biricchinata.

Una mattina, per esempio, che aveva accompagnato in cattedrale il maestro, penetrò di soppiatto nell'orto del seminario dove prosperavano grossi cavoli fronzuti. Ne colse alcuni steli e se ne tornò indietro, ripulendoli a morsi e unghiate. Già riguadagnava l'oscuro androne d'ingresso e svoltava per la chiesa, quando scorse i sagrestani indaffarati in non so quali lavori. Vinto da un impeto di simpatia, passò nelle loro mani i torsoli succulenti. Poi riprese il suo posto accanto al maestro, ne ascoltò in silenzio i rimproveri e forse pianse la sua scappatella che avrà fatto sorridere gli angeli.

Appena fu in grado di leggere, chiese la dottrina cristiana e altri libri religiosi. Li studiava con diligenza e passione, se ne nutriva avidamente lo spirito e ne narrava il contenuto ai compagni. Sapeva destare il loro interesse con le sue trovate originali e i suoi racconti avventurosi sulle gesta dei santi.

Qualche volta li conduceva a visitare le chiesette suburbane, scegliendo di preferenza il santuario di Capodigiano, dedicato alla Madonna delle Grazie. Allora scendevano di corsa quei gironi scheg-giati che portavano in fondo a un cratere pauroso, scavato dalla furia degli elementi, passavano il Ponte dei Mulini, sospeso sulla corrente tumultuosa del Rescio e risalivano la sponda opposta, tutt'avvolta dal fumo e dagli spruzzi delle acque che balzavano a valle. Poi, scivolando tra le ombre fitte delle querce, raggiungevano il sa-grato ed entravano, cantando, nella chiesa.

Qualche sera, invece, in mezzo ai giuochi, udendo i lenti rintocchi della campana che invitava i fedeli alla benedizione eucaristica, radunava la garrula brigata, dicendo: « Andiamo a visitare il nostro Signore carcerato! » Tutti applaudivano, rincorrendosi nei vicoli bui, sbattendo i piedi sui gradoni di pietra viva, rimandandosi l'un l'altro la voce. Pareva che andassero a festa. Poi, a notte fonda, si raccoglieva nel suo angoluccio di casa, al tenue chiarore della lucerna che sfriggeva dalla trave annerita e leggeva e meditava. Meditava su ogni cosa che riguardasse il suo amato Signore, ma l'argomento preferito era la passione di Lui.

Così passava le giornate: immerso in Dio. Lavorare ? Applicarsi a qualche cosa di pratico ? Gerardo era troppo coerente per pensare a siffatte bagattelle. Se la vita è un sogno, se vale solo come conquista dell'aldilà, a che serve impiegare tante ore alle cose periture ? Non è meglio pensare all'eterno e guardare, per il cibo e le vesti, agli uccelli dell'aria e ai gigli dei campi ?

« Ma e domani cosa farai ? ». Se qualcuno avesse avanzata la domanda, egli avrebbe guardato in alto verso il convento dei Cappuccini che biancheggiava tra i cipressi, le querce e i faggi. Vi si era recato parecchie volte in compagnia dello zio, Bonaventura, passando ore di spensierata letizia fra quei fraticelli scalzi che gli correvano incontro affrettando gli zoccoli sui lastroni del porticato e gli sfioravano il viso con le ispide barbe e lo invitavano a restare con loro, a restare per sempre! E Gerardo aveva sorriso di compiacenza, vedendosi già cinto del cordiglio di San Francesco e pregustando la gioia di cantare a voce spiegata sotto le volte basse della chiesina, o flagellarsi nel bosco al cupo brusio del vento e al cinguettio degli uccelli canori !

E intanto continuava la sua strada con crescente entusiasmo, finché una disgrazia familiare non venne a dare una svolta brusca e decisiva alla sua esistenza. Domenico, il padre buono e taciturno, colui che aveva conosciuto solo il lavoro e l'amarezza e non aveva avuto mai tanto pane per sfamarsi, ma sempre tanta forza per tirare avanti numerosi figliuoli, veniva rapito improvvisamente all'affetto dei suoi.

E allora Gerardo dovette affrontare la vita.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021