San Gerardo Maiella
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La lampada accesa

Capitolo X

Una sera d'estate, il padre Cafaro, gettando gli occhi attraverso la finestra della sua stanzetta, scorse il nostro Gerardo che zappettava le zolle aride dell'orto. Andava avanti a forza di volontà, raddrizzandosi di tanto in tanto per lanciare un'aspirazione al cielo che si colorava di rosa. E allora la sua figura si stagliava più fragile e sofferente sotto la luce del sole al tramonto. Il Padre si commosse e lo chiamò: quando seppe il suo stato di salute, gli assegnò l'ufficio meno faticoso di sagrestano.

Così un testimone racconta nei processi apostolici il passaggio di Gerardo da una missione all'altra. Ma noi, senza ricorrere a un intervento diretto del superiore e senza drammatizzar la cosa, possiamo spiegare il cambiamento con la semplice rotazione degli uffici, praticata per i coadiutori fin dagli esordi dell'Istituto. Ogni sabato sera, a refettorio, il ministro assegnava gli uffici secondo le necessità del collegio e le attitudini dei soggetti. Solo i postulanti e i novizi venivano ordinariamente sottoposti a prove più laboriose. E ciò spiega il trattamento riservato al nostro santo nel primo periodo della vita religiosa, anche se verso di lui fu usata maggiore severità, dati i preconcetti di cui era circondato. Ma, superata brillantemente la prova, dopo il primo noviziato, anche egli entrò nella solita rotazione degli uffici e non c'è da meravigliarsi se, data la sua costituzione infermiccia, la sua spiccata tendenza alla pietà e le sue capacità ai lavori di ago, fosse adibito, di preferenza, nella sagrestia e nel guardaroba. Ma egli fu anche portinaio, infermiere e cuoco e, nei periodi di emergenza, esercitò, se non l'ufficio, le incombenze dell'economo.

L'ufficio però che tenne più a lungo fu quello di sagrestano, e fu l'ufficio più consentaneo alle sue aspirazioni. Lavorare con Gesù e per Gesù, a contatto con Lui, gli sembrava una grazia degna dei beati comprensori.

Perciò ci si mise di gran lena. Spazzò con cura il pavimento, piccolo sì, ma soggetto al sudiciume degli scarponi che scendevano dagli stazzi, profumati di stallatico ; nettò le pareti, basse, ma infarinate dal vento che si accaniva sullo scoglio solitario ; lucidò gli altari, modesti, ma non privi di decoro. Dopo qualche giorno, la chiesa brillava per ordine e pulizia. Lo ricorderanno fino alla morte gli antichi missionari e i contadini dei dintorni, fondendo in un sol quadro quella figura estatica di santo e quel breve sfondo di archi e di volte che si animava della sua presenza adoratrice. Fu questo il muto teatro delle attrattive di Dio e della corrispondenza della creatura; ma qualche volta all'azione magnetica del primo corrispondevano le reazioni e le impennate della seconda che temeva, contro gli ordini dei superiori, di essere inceppata o paralizzata nel lavoro e gridava: « Lasciami, chè ho da fare», o si dava alla fuga. Non di rado però il santo veniva agguantato mentre fuggiva dalla mano possente della grazia e costretto a rimanere fuori del tempo e dello spazio nei luoghi e nelle ore più impensate. Una volta fu scovato dopo tre giorni di assidue ricerche dentro un tino, in un angolo buio della cantina, completamente assente dalla terra. Come vi era penetrato ? Cosa faceva ? Cosa avrebbe fatto se non si fossero accorti di lui ? Per quanto tempo vi sarebbe rimasto ? Erano i misteri della grazia che sfuggivano ai confratelli, soliti a disprezzare ciò che non comprendono, ma non all'occhio esercitato del prudente direttore. Questi sapeva quanto fosse difficile contenere dentro limiti precostituiti il flusso incandescente dello Spirito, ma ciò non gli impediva di riprendere aspramente l'umile Fratello per allontanare da lui ogni ombra di orgoglio. D'altra parte le riprensioni, se rallegravano il cuore del santo, non potevano non cagionargli agitazioni e timori: timori di uscire dai binari tracciati dai superiori, desiderio sincero di adeguarsi alla vita comune. A questo miravano i suoi sforzi, ma il problema era un altro : come alleggerire la pressione della grazia, come allentare la stretta di Dio. La fuga non giovava ; ci voleva uno sfogo periodico e il santo scelse i tempi liberi per essere poi in grado di mettersi al ritmo degli altri. A questo fine ottenne dal Rettore Maggiore il permesso di servirsi del tempo del riposo pomeridiano che nei mesi estivi, dato il calore implacabile 0.della zona, raggiungeva le due ore. Egli le passava in chiesa, alternando la meditazione alla lettura, la lettura alla preghiera vocale. Pregava a voce alta, a voce bassa, secondando gli impulsi interiori. Qualche volta, gridava addirittura.

A sera, sprangata la chiesa, si raccoglieva ancora in qualche cantuccio deserto finché il corpo non si piegava sui talloni in una lotta disperata contro il sonno e la stanchezza. Non sempre poteva raggiungere la stanza e al mattino si trovava là, sul nudo pavimento, intirizzito di freddo.

Qualche volta, invece, sceglieva di proposito la chiesa per i riposi notturni. Era quando, avendo ceduta la stanza ad ospiti o confratelli di passaggio, si rifugiava dentro l'altare maggiore per formare col corpo dei martiri lo sgabello al trono di Gesù. Ma l'abitudine gli giocò un brutto tiro. Lo raccontava lui stesso facendovi sopra delle grasse risate. Egli non diceva, naturalmente, d'aver trascorsa la notte in preghiera. Diceva solo d'essersi lasciato vincere dal sonno sul far dell'alba dentro l'altare, finché, svegliato di soprassalto dal campanello, s'era sentito martellare sul capo le parole della consacrazione. Che fare ? Venir fuori, avrebbe suscitato scompiglio nei fedeli. Fu giocoforza attendere la fine della messa. Ma quando stava per cacciar fuori la testa, ecco un'altra messa e poi una terza e poi una quarta. Fortuna che c'era vicino il Signore !

Così la chiesa divenne la sua casa e la sua abitazione ; anzi il suo guscio : qualche cosa che si moveva, respirava e s'integrava con la sua persona. Perciò l'adornava come si adorna la propria anima, con atti di fede e d'amore. Tutto era amore : anche smorzare una candela, spolverare una panca.

Ma questi sentimenti esplodevano più tumultuosi e gagliardi quando si avvicinavano le feste principali della Madonna. Con quale trasporto ne collocava l'immagine tra una pompa straordinaria di fiori e di luci e invitava col suono disteso delle campane i monti e le valli a lodare la più pura delle madri ! Allora si moveva con passi quasi di danza, riversando la sua gioia incontenibile nel lavoro, nella preghiera e nella penitenza. Allora ogni aspirazione del cuore, come ogni colpo di flagello, era un inno di ringraziamento al Signore per i privilegi concessi a Maria. Allora le giornate correvano troppo veloci incontro alla sera e l'aurora sorgeva troppo presto a spezzare i suoi colloqui con la Regina del cielo che spesso scendeva dal suo trono in un nimbo di luce, lasciando dilagare il paradiso nella piccola chiesa. Tali apparizioni cessarono dopo il precetto del p. Cafaro, ma non ne cessarono mai gli effetti nell'anìma del santo che al solo nome di Maria si accendeva di riflessi divini: il volto diveniva una fiamma e la lingua schioccava contro il palato, pregustando una dolcezza sensibile. La vedeva come una creatura essenziata di bellezza, una bellezza che scaturiva dalla sua Concezione Immacolata, da cui s'irraggiava, come da sorgente luminosa, su tutto il creato, per brillare di luce più viva sul volto di ogni donna.

Gerardo ha reso mariale ogni donna, in modo particolare le religiose consacrate a Dio. Dirà più tardi alla Madre Maria di Gesù « L'unica ragione che mi tocca al vivo del cuore è che tutte voi Spose, mi ricordate e rappresentate la Divina Madre ».

Questo carattere marìale gli infondeva una venatura di dolcezza perfino quando impugnava i flagelli o si circondava di teschi ; qualche volta lo trasfigurava in una creatura infantile che, ignara del male, con la bocca di latte, sorride beata alla mamma, ardendo del sorriso di lei : più spesso lo trasfigurava in un serafino trasvolatore degli spazi.

Un giorno, racconta il Tannoia, tornava da Deliceto con due ragazzotti, scherzando e saltellando con loro, quando, giunto in prossimità di una cappella campestre dedicata alla Madonna, prese a parlare delle sue grandezze con tale trasporto da accendersi in volto ; poi cominciò ad ansare come gli mancasse il respiro. D'un tratto si arrestò ; poi, entrando nella masseria accanto, con una penna tracciò alcune frasi su un foglio di carta e usci a precipizio. Giunto sul prato, spiccò un salto, gettando il foglio per l'aria. Poi, come avesse voluto rincorrerlo, si slanciò anche lui per l'aria, trasvolando in linea retta gli avvallamenti del terreno e andandosi a posare sul greppo di fronte, alla distanza di un miglio.

Un'altra volta, raggiunta nelle stesse vicinanze una donna che frequentava la chiesa del collegio, di scatto, le consegnò il soprabito e si diede a camminare rapidamente, quasi di corsa. Entrò nella solita cappella e n'uscì con la stessa lieta furia, sfiorando appena la terra con la punta dei piedi. A un certo momento, si levò in aria fino al collegio.

è da porsi in risalto quest'aria di giuoco che circondava la sua attività spirituale, un giuoco che non ha nulla di frivolo, ma è anzi significativo della facilità con cui si muove nei campi più rarefatti del soprannaturale. Alle volte il giuoco può sembrare follia, ma è la stessa follia dei grandi innamorati della Vergine, cantata da S. Alfonso nelle Glorie di Maria (Cap. T, III), la follia, per esempio, di un S. Francesco Solanes che « impazzito - ma di santa pazzia - si metteva alle volte con istrumenti di suono a cantare d'amore avanti una sua immagine, dicendo che, siccome fanno gli amanti del mondo, egli faceva la sua serenata alla sua diletta regina». Regina ! ecco un titolo che non sarebbe caduto dal labbro del nostro santo che aveva all'occorrenza parole più calde, più immediate, più umane « Mamma Maria Santissima, Mamma Immacolata» o più semplicemente « Mamma », ma pronunziata in modo che tutti capivano qual era l'amore che lo tirava.

Come si vede, la spiritualità gerardina, così ardita e complessa, raggiunge la sua maturità e quindi il suo equilibrio più profondo proprio qui, tra queste benedette mura di Santa Maria della Consolazione, a contatto con quella Sapienza che scorre nel mondo con la leggerezza del giuoco e la potenza della folgore, rivivendo misteriosamente nella carne tutte le fasi dell'agonia del Signore, e dilatando ogni giorno il proprio cuore nell'incontro filiale con la Madre del cielo.

Coloro che si meravigliano della frattura troppo repentina tra la vita menata nel mondo e quella che s'imporrà alle moltitudini, dimenticano facilmente che tra la prima e la seconda intercorrono circa tre anni d'incubazione interiore. Sono gli anni più ricchi e fecondi che coordinarono tutti gli elementi della vita anteriore e li proiettarono armonizzati e completi all'ammirazione dei popoli. Ma sono anche gli anni più nascosti che noi possiamo ricostruire solo approssimativamente attraverso i pochi episodi narrati dalla tradizione. Una tradizione piuttosto scarna e anonima, che trova la sua cornice nelle vicende stagionali del collegio di S. Maria della Consolazione con quella chiesina aperta alle esalazioni del bosco. Quella chiesina è la segreta ispiratrice del santo ; quindi, la muta protagonista degli avvenimenti che siamo per narrare.

La sua grande giornata cadeva l'otto settembre ed era preceduta da una novena. Allora due uomini si mettevano all'opera: fratel Gerardo e il p. Cafaro. Il primo per allestire quegli addobbi macchinosi che strappavano la meraviglia, il secondo per infiammare quelle popolazioni semplici e religiose di cui S. Alfonso diceva « La gente qui è affezionatissima e docilissima, sono inclinati alla pietà e ci sono pochi peccati». E del predicatore : « Paolo ha pigliato un gran nome» (Lettere, I, 100).

Il giorno della festa si svolgeva la fiera. I pastori, prima di raggiungere le pianure, amavano darsi convegno coi loro greggi e i loro prodotti ai margini del bosco. Si vedevano campionari di cavalli, vacche, pecore e capre, con formaggi e ricotte; quelle ricotte famose che Sant'Alfonso confessava di « non averne mai provate di simili» (Lettere, I, 100). C'era la solita folla di compratori, sensali e curiosi che all'ora della messa gremiva la chiesa e poi si riversava sui greppi antistanti a giudicare di bestie e foraggi, con la stessa semplicità con cui sentiva le prediche e confessava i propri peccati.

Cessato il trambusto, con lo scorciarsi dei giorni, mentre il vento umido portava la pioggia e la nebbia, si diradavano gli stazzi, e nei dintorni calava il silenzio, interrotto solo la domenica dai soliti gruppetti di cittadini e di pastori ritardatari.

Allora i missionari si chiudevano in dieci giorni di ritiro; ai 15 di ottobre celebravano la festa di Santa Teresa e all'indomani discendevano dai monti, assetati di anime. Si vedevano i loro visi accesi sotto i larghi cappelli e gli enormi collarini bianchi aperti sulla gola: « A larghe falde porto il cappello - antica forma del mio drappello - tutta scoperta porto la gola - perché sia libera la mia parola» diceva un antico canto liguorino. Avanti sotto la pioggia, la neve o la tormenta, attraverso torrenti, fiumi e montagne per sei sette mesi dell'anno.

Ai primi di novembre, cessava anche l'afflusso degli esercizianti e sullo scoglio si faceva il deserto, mentre la chiesetta sbadigliava alle nebbie pungenti dell'inverno. Allora Gerardo aggiungeva all'ufficio di sacrista quello di guardarobiere e di aiutoeconomo alle dipendenze di fratel Leonardo. Costui, il soprintendente dei campi, aveva un cipiglio burbero di maresciallo a riposo, ma col nuovo sottoposto non doveva davvero alzar la voce. Bastava un cenno, e lo vedeva partire a tutto vapore, senz'altro pensiero che di far presto e bene.

Un giorno fratel Leonardo gli disse di prendere il cavallo e di recarsi ad Accadia per alcune faccende. E Gerardo prese il cavallo e andò ad Accadia, col petto contro vento, gli occhi nella nebbia, i piedi negli acquitrini. Vi giunse nel pomeriggio avanzato, rotto dal digiuno e dalla stanchezza. Ebbe appena tempo d'entrare in chiesa e cadde svenuto.

Tornato a casa, il superiore era fuori dei gangheri: « Ma perché non ti sei messo a cavallo ? ».

« Non ne avevo il permesso».

« Perché non ti sei portato da mangiare ? ». « Non me l'hanno dato».

« Ebbene», concluse il superiore, « da oggi in poi devi servirti del cavallo, hai capito ? ».

Aveva capito, ma escogitò nuovi modi di mortificarsi. Se usciva con un confratello, lo costringeva a montare con mille pretesti che lui aveva bisogno di sgranchirsi le gambe; che il moto gli faceva bene e via discorrendo. Se andava solo, lo cedeva al primo povero che incontrava, scendendo di sella e invitandolo a salire. Si raccontano in proposito numerosi episodi.

Un giorno, raggiunse per l'erta di S. Agata di Puglia un'enorme caldaia che traballava sotto una catasta di cenci. Guardò bene una donna incinta risaliva col bucato dal fiume. Subito scese, e, strappatole a forza il recipiente, se lo pose in testa, una mano all'ansa, una al cavallo. All'ingresso del paese, qualche curioso lo guardò divertito, qualche monello batté le mani, gridando: «Il monaco, il monaco ! ». Il sangue gli si rimescolò ; che fare ? « Tira avanti! », disse a se stesso, e proseguì a fronte alta per la straducola rocciosa ; infilò la via principale, sotto il fuoco di cento occhi beffardi : « Hai vergogna ? », ripeteva a se stesso. « Non sono i poveri i tuoi padroni ? Non è un onore servirli ? ». Proseguì fino all'uscio della poveretta e la lasciò lì, a dimenarsi in ringraziamenti. Allora soltanto ritornò sulla sua strada con la coscienza d'aver compiuto il suo dovere e nulla più.

Un vecchio strascinava un grosso fascio di legna. Gerardo gli andò incontro, si rovesciò il peso sulle spalle e lo accompagnò a Deliceto. Un altro vecchio camminava a piedi nudi sui rovi della via. E Gerardo in un baleno gli passò scarpe e calze e continuò la strada per sentieri da capre. Si presentò come si trovava al superiore a chiedere il permesso anche per i casi futuri. L'ottenne.

Lo stesso praticava in casa. Come guardarobiere, aveva in custodia la biancheria comune. Toccava a lui distribuirla ogni settimana dal deposito «senza parzialità o riguardo », come voleva la regola. Lui invece era parziale e come ! Ma solo con se stesso. Era l'ultimo e doveva essere trattato da ultimo, con la roba più logora, più ruvida. Se anche questa mancava, pazienza! Restava senza lenzuola o coperte, anche nel rigido inverno.

Come sarto, toccava a lui rattoppare le vesti e confezionarne di nuove. Ma i mezzi erano esigui, ed egli pensava con terrore ai confratelli che tremavano di freddo nella casa incompiuta, scrollata da tutti i venti che s'incrociavano rabbiosamente in quello sperone solitario. Allora si spogliava degli indumenti personali per rivestirne gli altri, meno bisognosi di lui. Fu visto, durante l'inverno mentre gli alberi si storcevano sotto la raffica dell'uragano e il peso della neve, rimanersene intirizzito dal freddo, con la sola veste gettata sulla camicia. Fu visto ancora tornare sporco e bagnato dal lavoro e attendere tranquillamente in un canto che altri avvertisse la sua presenza. Un giorno tornò da Foggia con un grosso carico di legname da costruzione. Era irriconoscibile per un incidente occorsogli a un miglio da casa: all'improvviso carro e cavalli erano sprofondati in un pantano. Gerardo era corso ; era corso il carrettiere bestemmiando come un turco e insieme erano riusciti a raddrizzare la partita, ma a quale costo! Gerardo aveva perduto una scarpa nel fango e si era inzaccherato da capo a piedi. Giunti in collegio, i confratelli si erano preoccupati tutti quanti di scaricare il legname e di ammansire il carrettiere che faceva della disgrazia un'arma di ricatto per estorcere denaro. Nessuno invece pensò al principale sinistrato che stanco, sudato e bagnato, non reggendosi più in piedi, si lasciò andare su una pancaccia della portineria attendendo che qualche anima del purgatorio si ricordasse di lui.

Eppure, egli che era sempre pronto a nascondere le proprie necessità, si faceva in quattro per soccorrere tutti, specialmente i confratelli malati che non mancavano mai in quella casa. Perché Deliceto, per la sua aria sottile, era ritenuta la più adatta per i tubercolotici, tanto frequenti in quei primordi, specialmente tra i giovani padri e i chierici studenti. Si aveva per loro tutta la carità, ma non mancava un certo timore di contagio. Da ciò l'isolamento : quella morte morale, più triste dell'altra morte che si attendeva con certezza fatale.

Gerardo studiava negli altri l'effetto di questo isolamento, ne comprendeva l'umiliazione e l'agonia prolungata, finirà per chiederlo al Signore, desiderando di morire abbandonato; ma intanto si faceva un dovere di visitare spesso questi malati, di abbattere tra sé e loro ogni diaframma di paura, di nascondere il suo eroismo sotto il velo della facezia o dell'uscita spiritosa. E, parlando, allungava gli occhi per scrutare eventuali necessità, per intuire eventuali desideri. Ne seppe qualche cosa il padre Muscarelli.

Tale carità si moltiplicava con gli ospiti. Voleva che si sentissero a loro agio, che respirassero aria di famiglia, che fossero prevenuti nelle sfumature dei loro desideri inespressi.

Lo raccontava molti anni dopo, con la commozione alla gola, il canonico don Antonio Sabbatelli.

Era venuto una sera d'inverno per qualche giorno di riposo, ma aveva dovuto mettersi a letto per improvviso malore. I buoni Padri gli furono attorno premurosi: « Signor canonico, ha bisogno di niente Faccia conto di stare a casa sua». Ma la sua casa era rimasta laggiù, a Melfi, ed egli si sforzava di nascondere il proprio disagio che a volte si trasformava in vera angustia : perché recare disturbo non piace alle persone dabbene. Ma come sfuggire a due occhioni investigatori, a due mani che si affaccendavano intorno al suo letto, ad un riso ampio, invitante, che gli apriva il cuore alla confidenza ? Gerardo era davvero l'angelo del conforto, sceso in quella stanza per assisterlo perfino nella notte. Infatti una notte, il canonico, svegliandosi di soprassalto, a uno spiraglio di luna, scorse i due occhi luminosi di Gerardo fissi sul suo letto. La veste e i capelli restavano assorbiti dalle tenebre, ma quegli occhi emergevano grossi e lucenti dal viso pallido, come una icone bizantina.

Più straordinario il caso raccontato dal Tannoia.

Cadde ammalato un romito che abitava ai margini del bosco, nelle immediate vicinanze della casa. Apparteneva al gruppo che, già da molti anni, aveva preso stanza nell'antico romitorio degli Agostiniani, vivendo del lavoro manuale e delle elemosine dei fedeli. Questi anacoreti, vestiti di sacco alla foggia di S. Antonio Abate o di altri solitari della Tebaide, osservavano alcuni regolamenti tradizionali, spesso infarciti di pratiche superstiziose e stravaganti. Al sopraggiungere dei missionari, i migliori si erano messi sotto la loro direzione, qualche altro aveva preferito restare uccel di bosco, continuando a scroccare le elemosine della buona gente che gabbava con una certa tranquilla disinvoltura. L'infermo apparteneva a questi ultimi. Da principio volle rimanere nella sua tana, a dispetto della malattia: una putrefazione interna che gli rodeva le viscere e lo faceva latrare come un cane. Impossibile accostarsi a quel giaciglio un fetore nauseante respingeva i più volenterosi. Ma non Gerardo. Lo vegliò assiduamente; quando lo vide aggravarsi, lo trasportò in collegio per moltiplicargli le cure. Era lì, sereno e gioioso, vicino a quel letto da cui gli altri fuggivano turandosi le narici per l'aria appestata.

Il misero spirò tra orribili spasimi, mentre Gerardo gli porgeva il Crocifisso e gli poneva sulle labbra il nome di Gesù e di Maria. Invano! Quei nomi santissimi non rischiararono la mente dell'infelice che morì, come un riprovato.

Gerardo lo seguì con le preghiere, ma una sera fu riscosso da una voce lugubre. Alzò gli occhi: era il romito. Aveva l'aspetto deforme e contratto, più che sull'orlo del sepolcro. Lo guardò a mezz'aria, poi disse con voce cavernosa : « Non pregate per me, che, per giusto giudizio di Dio, sono dannato». E disparve.

Se vogliamo conoscere la sorgente perenne di tale carità, dobbiamo seguire il nostro santo dal guardaroba alla chiesa, dall'infermeria all'altare. Qui si accendeva quell'estro gioioso che lo accompagnava nella dedizione di se stesso agli altri; qui si alimentava la fiamma del suo sacrificio e qui si rivestiva delle sfumature più delicate degli affetti umani e divini. L'umano, per una osmosi soprannaturale, penetrava nel divino e il divino scendeva continuamente a permeare l'umano. Così egli intonava il poema integrale della sua esistenza, accordandolo col canto corale delle ricorrenze liturgiche.

Acquistava la grazia ingenua dei bambini preparando il presepe e scendendo coi zampognari a cantare la ninna nanna al Verbo Incarnato; ma penetrava nelle arcane profondità del dolore, meditando sulla notte buia del Getsemani ed allestendo l'altare-sepolcro della settimana santa. Imparava ai piedi di Maria tutti i palpiti di cui è capace il cuore materno ed esaltava la gamma inesauribile dei suoi estri gioiosi quando con le campane annunziava di greppo in greppo la gloria del Risorto o la discesa del Fuoco sugli apostoli della buona novella.

Così il ciclo liturgico era divenuto parte integrante della sua esistenza; qualche cosa che lo assorbiva nel corpo e nell'anima e lo consumava come lampada accesa davanti all'altare.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021