San Gerardo Maiella
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La ruota del convento

Capitolo XXXV

Verso la fine di aprile, i due solitari dell'ospizio si trasferirono per alcuni giorni da Napoli a Calitri, nella verde vallata dell'Ofanto. Il padre Margotta vi possedeva una proprietà terriera che aveva legata al collegio di Materdomini e vi si recava di tanto in tanto, specialmente al tempo del raccolto. Questa volta lo accompagnava il nostro Gerardo.

Presero alloggio presso la famiglia Berrilli, una di quelle famiglie di nobiltà provinciale, frequenti in quell'età ancora feudale, che passavano il tempo nelle normali faccende agricole e nei pettegolezzi paesani. Religiose per tradizione, imparentate con molte suore dei vari monasteri locali, sufficientemente dotate di ricchezze, riponevano la loro ambizione nell'ospitare i missionari di passaggio e nel legare i loro nomi a qualche chiesa o arciconfraternita religiosa. Però se dalle chiese esigevano, come compenso, una lapide coi titoli altisonanti degli avi, dai missionari si aspettavano tutto un codice di osservanza rigorosa: austerità di gesti e di parole; mani e mento inchiodati sul petto; volto atteggiato a pietà.

Per la famiglia Berrilli il tipo ideale del missionario era impersonato dal padre Margotta, così grave e compassato e col tormento interno scavato sulle guance. La sua figura un po' tetra e nostalgica rendeva più evidente il contrasto col suo compagno di viaggio, tutto fuoco negli occhi; tutto fremiti nelle parole ; tutto giovialità nella persona. Ma il Padre correva dalla mattina alla sera dietro le opere dei campi, mentre l'umile Fratello rimaneva solo, a contatto con una famiglia sconosciuta da cui veniva riguardato con una certa aria di compatimento.

Se ne consolò col Signore, proponendosi di trarne i massimi vantaggi spirituali. Nelle ore libere dalle lunghe orazioni in chiesa, voleva servire; servire in casa degli ospiti con la stessa semplicità con cui serviva in collegio. Spaccava la legna, rassettava le stoviglie, sbrigava le incombenze più faticose, nonostante le proteste della famiglia che venerava in lui, se non altro, la veste del missionario. Ma per Gerardo l'essenziale era di rendersi utile e di guadagnarsi il pane che mangiava, anche se la sua non eccessiva abilità nell'arte culinaria fosse resa ancor meno valida dalle distrazioni frequenti.

Un giorno che aveva sollevato una vettina sul ginocchio per versar l'olio in una bottiglia, la lasciò scivolare per terra, macchiando la veste e il pavimento. Una ragazza lì presente gli scaricò addosso molte villanie. Alle sue grida accorse donna Giulia Arace, la padrona di casa, che riprese aspramente la figliuola : « Non è questo il modo di trattare i missionari ... Del resto», soggiunse per consolare il povero Gerardo che guardava mortificato il disastro, « del resto, mi occorrevano proprio dei batuffoli di lana inzuppati d'olio e il fatto mi viene a proposito».

Così dicendo, si ritirò nella stanza vicina a rifornirsi di lana. Quando tornò in cucina, la vettina era al proprio posto, con la stessa misura di olio, il pavimento asciutto e pulito.

Guardò la figlia: aveva i segni dello stupore sul viso. « In quei momenti - dirà costei più tardi alle consorelle del locale monastero benedettino, dove prendeva il velo col nome di suor Maria Giuseppa - in quei momenti io ero come stordita, come immersa in una visione di sogno. Vedevo Gerardo ricomporre con le sue mani i cocci sparsi per terra e l'olio rifluire lentamente nel vaso risanato. Mia madre rimase senza fiato per un pezzo, mentre egli si ritirava nella sua stanza a pregare. Là lo trovammo, luminoso come un angelo ».

Fin d'allora donna Giulia cominciò a venerare fratel Gerardo e a confidargli i segreti della propria coscienza. Una volta, durante il pranzo, il santo conversava con lei animatamente di Dio. Li ascoltava con un certo sussiego il padrone di casa, don Giuseppe Nicola Berrilli, meravigliandosi grandemente del calore di quelle parole, sante senza dubbio, ma forse troppo familiari per non dare appigli al demonio, il quale è maestro nel prendersi giuoco delle migliori intenzioni. Non aveva ancora finito di formulare il suo giudizio che Gerardo, troncando il discorso con donna Giulia, si rivolse a lui direttamente: « Si: è vero», disse, « il demonio va sempre in cerca di ciò che è di Dio ; ma state sicuro che Dio non permetterà mai che egli si prenda qualcosa delle nostre sante intenzioni ».

E riprese il discorso interrotto.

Ma la rivelazione completa avvenne poco dopo per opera del padre Margotta. Era venuta una donna da Bisaccia in cerca di Gerardo, e dovette attenderlo fino all'ora di pranzo perché era in chiesa. Quando lo vide spuntare, gli si gettò ai piedi, scoppiando in lacrime disperate e implorando la grazia per un congiunto già spacciato dai medici. Non si calmò se non quando ebbe l'assicurazione che avrebbe pregato per lui.

Osservavano la scena, sorpresi e divertiti, i signori Berrilli, mormorando di tanto fanatismo che poteva compromettere la serietà stessa della religione. La sera raccontarono l'accaduto al padre Margotta, deridendo in un fascio la fede superstiziosa della donna e la goffa semplicità di Gerardo. Ma il Padre, fattosi serio, rispose « Voi ci ridete, perché non conoscete i doni straordinari di questo santo Fratello ».

E narrò brevemente alcuni episodi di cui era stato testimone. La sorpresa fu grande, ma le sue parole ebbero quasi subito la conferma strepitosa dei miracoli.

Era moribondo un valente chirurgo di nome Giovanni Cioglia, rinomato per l'abilità professionale e l'onestà della vita. Si; attendeva da un momento all'altro la notizia del trapasso, quando entrò Ge-rardo, inviato in suo soccorso dal padre Margotta, e gli tracciò sulla fronte un segno di croce. Al tocco di quella mano, l'infermo si riebbe, conservando per più giorni perfetta lucidità mentale, tra le meraviglie di tutto il paese che gridava al miracolo. Ma il santo corresse: « Tanto può fare l'ubbidienza!».

Questo fatto ne provocò un secondo, quasi uguale.

Una suora, atterrita per la sorte di un fratello, entrato in agonia prima d'essersi confessato mentre ne aveva estremo bisogno, si rivolse a Gerardo, ma questi, preoccupato dal crescente rumore dei suoi miracoli, riluttava. Allora la suora ricorse al padre Margotta e l'ubbidienza vinse ogni ostacolo. Al segno di croce del santo, l'ammalato prima riacquistò i sensi e si confessò; poi, a più riprese, si ristabilì completamente.

Insomma, quanto più Gerardo amava nascondersi, tanto più il Signore lo glorificava: perfino le sue vesti cominciarono a produrre miracoli.

La signora Angela Rinaldi, sorpresa da acute emicranie in casa Berrilli, vedendo in un angolo il cappellaccio di Gerardo, se lo calcò sulla testa, dicendo tra il serio e il faceto: « Voglio proprio vedere se questo Fratello è santo ! ». Il dolore scomparve all'istante. Allora cominciò una vera caccia alla roba del santo, ricorrendo a tutte le industrie per sorprendere la sua buona fede.

Un giorno i signori Berrilli lo costrinsero a calzare un paio di scarpe nuove per tenersi, come preziosa reliquia, le vecchie. Le avevano appena riposte nell'armadio, quando un giovane garzone fu assalito da violente coliche viscerali. Mentre si contorceva sul letto, la signora Giulia gli appoggiò sulla, parte inferma le scarpe e ogni dolore scomparve. Il male tornò dopo una decina di giorni. Ma questa volta fu lo stesso giovane che tra gli spasimi si mise a gridare «Portatemi le scarpe di fratel Gerardo ». E il dolore scomparve per sempre. Da allora quelle vecchie scarpe passarono di casa in casa, seminando miracoli, finché, divise e suddivise tra i devoti, scomparvero dalla circolazione. Si sa solo che una di esse fu donata al monastero delle Benedettine dove andò perduta.

Tutti questi prodigi preludevano alla conversione delle anime. Infatti, appena se ne diffuse la fama, i peccatori e i sofferenti sentirono il bisogno di ricorrere al grande taumaturgo, il quale iniziò una vera azione apostolica con la stessa efficacia di Corato e Castelgrande. Molte anime tocche dalla grazia tornarono a Dio; molte, già bene avviate, raddoppiarono il fervore.

Tra le altre, la signorina Maria Candida Arace, sorella dell'arciprete di àndretta, la quale era agitata da infiniti scrupoli che non le davano pace di notte e di giorno. Stava per perdersi di coraggio quando, per mezzo di donna Giulia, sua parente, venne a conoscere i prodigi di Calitri. Allora preparò una lunga filastrocca di ansietà e di dubbi, e si mise in viaggio, ripassandosela mentalmente infinite volte. Ma, giunta alla presenza del santo, fosse la commozione, fosse un collasso improvviso di nervi, non riuscì a spiccicare una parola. Arrossiva, tremava, apriva e chiudeva la bocca, ma non le si cavava nulla. L'altro, dopo averla incoraggiata più volte, alla fine disse: « Giacché non volete parlar voi, parlerò io». E le pose sotto gli occhi tutti i suoi pensieri, ansietà, dubbi e timori, dando per ognuno un risposta esauriente. La poverina riacquistò la pace.

Se poi le anime non andavano da lui, era lui che correva loro incontro con tutte le insinuazioni della grazia e le minacce dei castighi di Dio.

Don Nicolò Saverio Berrilli era un gentiluomo dalla vita facile e gaudente che si gettava nei piaceri con un'impetuosità naturale e selvaggia, incurante degli scandali. Ma i suoi eccessi derivavano dalla passione, non dai principi, perché era fondamentalmente credente e rettore di un beneficio ecclesiastico. Voleva solo godersi la vita, riservando alla penitenza il tempo futuro. Ma disgraziatamente le sue vedute non collimarono con quelle del cielo.

Il santo lo esortò con rude franchezza a far penitenza e a recarsi a Caposele per gli esercizi spirituali. Don Nicolò non negò le sue colpe: non oppose un rifiuto e non si meravigliò della proposta.

Solo cercò di guadagnar tempo. « Ora non posso », rispose, « ma, a Dio piacendo, dentro ottobre senz'altro verrò ».

« In ottobre ? », lo interruppe il santo con forza, « ma voi ottobre non lo vedrete! ». Il gentiluomo era robusto come una quercia; eppure, sorpreso da febbre maligna, scese precocemente nel sepolcro il 19 luglio di quell'anno, munito dei conforti religiosi.

Intanto la fama delle conversioni e dei miracoli era penetrata nel monastero delle Benedettine, le quali si rivolsero al padre Margotta per averlo tra loro. Ricevuta l'ubbidienza, Gerardo si mise all'opera con l'usata veemenza. Esortò le suore ad amare la regola e lo sposo divino: due amori che dovevano formare un unico amore. Infiammò le fervorose, rianimò le timide, spronò le tiepide e le ir-risolute con parole che scioglievano le difficoltà, ridestavano le energie assopite e raddoppiavano l'efficacia dei propositi.

Una giovane aspirante, sul punto di cedere alle insinuazioni dei parenti, dopo una breve conversazione col santo, cambiò improvvisamente parere, e chiese franca e risoluta di consacrarsi al Signore.

Una suora scrupolosa, tormento dei confessori e delle consorelle, si presentò a Gerardo. Egli le impose silenzio ; le espose il suo stato interiore e poi conchiuse : « Ed ora ecco quello che devi fare per guarire » e le tracciò un programma di vita. La suora riacquistò la pace.

Dal fervore privato si accese il fervore comune. Crebbe il raccoglimento e il distacco dal mondo. Ma il santo non ne era soddisfatto, perché pensava che non si potesse concepire un vero fervore finché sussistessero le cause della dissipazione e del male. Ora queste cause egli le aveva individuate nella ruota del monastero, che dava sulla strada e sul piazzale antistante alla chiesa : per cui avveniva che il viavai di persone col loro vocio scomposto riuscisse a turbare quella zona di silenzio, necessaria alla preghiera. E poi in una tavola della ruota egli aveva scorto un certo forellino che poteva divenire sorgente di curiosità e di scandali.

Si rivolse alla madre Badessa, la quale personalmente non fu contraria, ma gli fece osservare che, per sistemare altrove la ruota ed ovviare agli inconvenienti lamentati, sarebbe stato necessario consultare le altre suore. La risposta era evasiva, ma Gerardo non si perse di coraggio. Col consiglio del padre Margotta, tenne alla comunità un discorso tanto infuocato sui pericoli del mondo e gli inconvenienti della ruota che a un certo punto fu interrotto da un sol grido : « Si faccia, si faccia subito ! ».

Far subito era anche il suo parere, ma l'ora era tarda e non sarebbe stato possibile avere un muratore. Perciò la cosa fu rimessa all'indomani. Ma all'indomani si era già dovuto verificare qualche cosa di nuovo, se Gerardo corse di buon mattino al monastero, nascondendo a malapena l'agitazione interna.

Si presentò alla madre Badessa e le chiese se la comunità avesse gli stessi sentimenti della sera precedente. La Madre, colta di sorpresa, cominciò a destreggiarsi con parole generiche : che non ca-piva il perché della domanda; che non c'era motivo di credere che ci fosse qualche cosa di nuovo. Ma il santo, fattosi serio e triste, le spezzò la parola: « Dunque, voi mi dite che non c'è nulla di nuovo ? E non ricordate che la tal suora, ieri sera, durante la ricreazione, ha opposto questa e questa ragione ? E la tal'altra'quest'altra ragione ? ».

E seguito, citando nomi e cognomi e le ragioni addotte contro la rimozione della ruota. « Ebbene », concluse, « non se ne parli più. Non avete voluto cambiar la ruota ed essa non si cambierà più ». E uscì profondamente turbato.

La ruota, per testimonianza di molti, rimase ancora per decine e decine di anni al medesimo posto. Solo più tardi, dopo incessanti preghiere, si riuscì finalmente a sistemarla altrove. Di fronte vi fu posta l'immagine di fratel Gerardo. Egli, col Crocifisso posato sul petto, rimase lì a ricordare alle religiose gli impegni solenni della loro consacrazione a Dio.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021