San Gerardo Maiella
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Dramma in due atti

Capitolo XXIII

Verso la fine di maggio, qualche settimana dopo il viaggio al Gargano, Gerardo dovette ripartire in tutta fretta alla volta di Castelgrande, per sedare una grave discordia cittadina, nata da un fatto di sangue. Anni prima il notaio Martino Caruso aveva ucciso in rissa il cugino Francesco Caruso ancor ventenne. I genitori della vittima, Marco e Teresa, avevano giurato di vendicarlo e, a ricordo del giuramento, conservavano le vesti insanguinate del figlio, perché il sangue reprimesse ogni altro sentimento che non fosse di odio implacabile ed eterno.

Da allora quell'odio si era propagato di famiglia in famiglia, dividendo la città in due fazioni irriducibili, che, se non venivano alle mani, si guardavano però in cagnesco. Per l'aria e tra le oscure stamberghe stagnava la diffidenza e la paura.

Questo stato di cose aveva spinto uomini influenti a tentare una composizione pacifica, ma senza risultato; anzi in quel mese di maggio le cose sembravano prendere una piega peggiore. Che fare ? Mentre si discutevano i vari progetti, giunsero gli echi dei fatti di Corato ad aprire i cuori ad un'ondata di speranza.

« Dunque », si chiedevano un po' tutti, « Gerardo non è solo un potente intercessore presso Dio : è anche un agitatore di anime e un conquistatore di folle ».

Dalla riflessione spuntò fuori la decisione : bisognava chiamarlo a ogni costo. Solo lui poteva riportare la pace nella città divisa. Fu così che una deputazione di notabili raggiunse sui monti dell'Irpinia il padre Cafaro che predicava la missione a Guardia dei Lombardi, per chiedergli d'inviar loro, come paciere, fratel Gerardo. In altre occasioni l'austero missionario avrebbe respinto la proposta : tanto era nemico delle chiassate. Ma ora, conoscendo egli stesso la gravità della situazione qualche settimana prima aveva predicato la missione a Pescopagano, a pochi chilometri da Castelgrande - promise il suo vivo interessamento. Scrisse, infatti, al padre Fiocchi, pregandolo di mandargli a Caposele fratel Gerardo per un'opera di grande gloria di Dio. Avrebbe pensato lui a fornirgli gli opportuni ragguagli perché riuscisse nella difficile impresa.

Gerardo partì per Caposele e, presi gli accordi col suo direttore, tornò a Deliceto; poco dopo, si rimise in viaggio per Castelgrande, in compagnia di fratel Fiore. Toccò le falde occidentali del Vulture, seguendo il corso del medio Ofanto, poi piegò a sud, inoltrandosi in un andirivieni di vallette brevi, ombreggiate da querce e castagni, tra rocce fiorite di muschio, rinfrescate da sorgenti purissime.

Giunto su una piccola sella, trovò che la strada si biforcava: a destra saliva ansimando verso Rapone, un paesello addossato a folti pinnacoli di monti, bianchi come nuvole ; mentre a sinistra procedeva lungo la dorsale di alcune collinette, verso Ruvo del Monte. Senza esitare, prese a destra. La via sarebbe stata più disagevole, ma gli avrebbe permesso di abbreviare il cammino e di evitare le dimostrazioni di Ruvo che nell'autunno precedente avevano assunto proporzioni tanto solenni. Ma i ruvesi avevano previsto il colpo e lo attendevano al varco, nascosti tra le siepi e le piante. Appena scoperta la sua intenzione, gli si precipitarono addosso e lo portarono in trionfo dentro il paese "come avrebbero portato un santo del Paradiso", dice il padre Caione.

La fermata non fu lunga, sufficiente tuttavia per farlo giungere a destinazione qualche ora dopo il previsto, quando già le tenebre si stendevano sulla terra stanca da tutta l'afa di giugno. Eppure il concorso fu enorme : dai massi e dai ciglioni si scorgevano ombre umane aggrappolate, mentre i ragazzi correvano come folletti tra fuochi di gioia, rattizzando le fiamme con lunghe forcine e l'aria risonava di grida e di spari d'archibugi. All'ingresso del paese gli si fece incontro il dottor Gaetano Federici, mastro giurato e luogotenente della città. C'erano tutti : autorità e popolo e Gerardo passava come un Messia, tra due ali di persone acclamanti, più pallido ai riflessi lattiginosi della luna, con l'umiltà dipinta sul volto, come quel giorno, quando, adolescente, in tempo di carnevale, passava per quelle stesse vie, pizzicando la chitarra e veniva dai compagni strascinato nel fango. Era mutata la sua condizione esteriore, restava identica la sua umiltà, anzi si faceva col tempo più composta e profonda.

Il dottor Federici, come primo cittadino del paese, volle avere l'onore di ospitarlo in casa sua. Era pronta la cena e Gerardo prese posto tra i familiari con tale semplicità e cortesia da conquistarsi subito le simpatie di tutti. Parlò del più e del meno; poi fece scivolare il discorso su argomenti spirituali e vi s'immerse completamente, sollevando gli occhi al cielo e accalorandosi gradatamente, come ferro gettato in una fornace. Le fiamme, ci dice il dottore, cronista fedele di quei giorni, le fiamme salivano sulle gote straordinariamente pallide come due rose arcuate, finché tutto il volto divenne di fuoco. Parlava ancora quando il dottore fu chiamato: si udirono i suoi passi frettolosi per le scale; poi più nulla. Tornò poco dopo nella sala: Gerardo era sempre allo stesso posto, con gli occhi in alto, sempre più accalorato, sempre più invasato da Dio. Allora, avendo fretta, gli troncò il discorso in bocca col tono autoritario di chi è avvezzo al comando : « Fratel Gerardo », disse, « questa sera, a maggior gloria di Dio, mercé le vostre orazioni, si ha da liberare una giovane ossessa ».

« Non conviene », rispose umilmente il santo, « non conviene mettere a rumore il paese, richiamando l'attenzione di tutti. Non mi lascerebbero più in pace ».

« Ma vi pare ? » riprese il dottore desideroso di rompere gli indugi, « la madre dell'ossessa attende qui da molte ore e noi vogliamo rimandarla a casa senza alcuna speranza ? ».

Alzò la voce e la chiamò: « Eccola », disse additando una donna che entrava urlando a graffiandosi la faccia, « anche lei vi supplica per la guarigione della figlia ».

La donna continuava a piangere e gridare, ma il dottore le impose silenzio : « Ora basta! Andate subito a prendere vostra figlia». Dopo qualche tempo, s'udì stridere l'uscio di casa e giunsero le grida forsennate di una giovane che tentava di svincolarsi dalle robuste braccia della madre. Messo il piede sulla soglia, diede ancora dei formidabili strattoni per gettarsi al di fuori, poi emise un grido straziante: «La bestia è vinta!».

E da sola, sfuggendo alla stretta materna, prese la rincorsa su per le scale, infilò la stanza dove era Gerardo e si gettò ai suoi piedi con la spuma in bocca.

Gerardo s'inginocchiò, intonando le litanie della Madonna, proseguendole alternativamente coi presenti, inginocchiati anch'essi. Terminate le litanie, si alzò, si sciolse la fascia di dosso, vi appose alcuni oggetti di devozione e, cingendone la giovane, si pose a sedere a un metro da lei. Ciò fatto, la fissò con gli occhi, pronunziando con le labbra parole impercettibili. Continuarono così per un pezzo; poi la giovane prese una sedia e gli si pose a sedere vicino. Allora il santo fece segno ai presenti di uscire e di chiudere la porta, ma il dottore si fermò a spiare tra i battenti.

La scena era davvero singolare: i due, seduti fronte a fronte, continuavano a guardarsi, movendo or l'uno or l'altro le labbra in un colloquio muto, colorito e punteggiato dall'espressione degli occhi e della faccia. Così per una ventina di minuti. Finalmente Gerardo, sorgendo in piedi, disse ad alta voce: « Va pure, sorella, non dubitare, conservati in Gesù Cristo e non avrai timore!».

La giovane uscì con la madre e il dottore, tutto raggiante, corse a congratularsi con Gerardo : « Dunque, come Dio ha voluto, anche questa è fatta ! ».

« Sì, era veramente ossessa», rispose tranquillamente, « ma Dio non la vuole del tutto libera. E ciò per suo bene».

Così fu. La giovane, dopo parecchi anni, poté tornare in chiesa, riprendere le pratiche di pietà e accudire alle faccende domestiche. Ma più tardi, fu ripresa saltuariamente dagli attacchi del male, in modo però tanto blando da non riceverne alcun pregiudizio né per la sua salute, né per la sua attività.

Intanto, secondo la predizione del santo, la guarigione della giovane aveva gettato lo scompiglio nel paese, richiamando la folla nella casa Federici. Questa, ci dicono i testimoni oculari, prese l'aspetto di un tribunale, per il viavai ininterotto di gente che, dalla mattina alla sera, si accalcava alla, porta: chi voleva un consiglio, chi una preghiera, chi una buona parola, e chi addirittura un miracolo. E Gerardo ascoltava tutti, consolava tutti senza concedersi un'ora di riposo, anche quando veniva meno per la stanchezza. Appena a tardissima notte si ritirava nella stanza, in seguito all'intervento energico del dottore che licenziava in tronco i presenti.

Allora, solo finalmente con Dio, si gettava bocconi per terra. Lì, brancicando la polvere, sentiva meglio la sua miseria e la grandezza di Dio che aveva scelto a cose meravigliose proprio lui, perché s'era fatto più piccolo degli altri.

Con tale preparazione spirituale, decise di affrontare il demonio che s'era impiantato in un'intera famiglia per gettare i semi dell'odio nell'intera città. Si fece chiamare il padre della vittima, ma ordinò a fratel Fiore che, durante il colloquio, se ne rimanesse in ginocchio davanti all'altare. La sua fiducia era sempre e solo nella preghiera. Marco Caruso si presentò all'ora stabilita col mento all'aria e la fronte corrugata. L'aspetto non prometteva nulla di buono, ma il fatto d'essersi presentato era già un successo, perché altre volte aveva sdegnosamente rifiutato ogni approccio, sprangando la porta di casa per vietarne l'accesso a chicchessia. Ora invece non aveva saputo resistere alla voglia di conoscere l'uomo di cui tutti raccontavano meraviglie. Voleva solo conoscerlo, ma col proposito di non cedere di un apice in quello che considerava un affare privato della sua famiglia. Perciò andò ad affrontarlo a testa alta, ben ferrato del suo orgoglio e preparato a un duello oratorio all'ultimo sangue. Forse s'immaginava il santo come un potente della terra, col pugno chiuso e gli occhi roteanti, ma qual non fu il suo stupore quando, accostatosi a lui, si trovò avvolto in un clima di semplicità, di candore e di carità cristiana che, senza prenderla di punta, disarmava tutta la sua albagia, scioglieva il gelo dell'odio e gli apriva il cuore al perdono fraterno ! Si trovò a terra, prima ancora di combattere e, non sapendo più come difendersi, ricorse alla tattica del guadagnar tempo : ci avrebbe pensato con calma e avrebbe deciso a mente fredda. Era quello che voleva evitare Gerardo, perciò lo stringeva da ogni parte e non gli dava tregua. Oggi lo voleva il Signore, oggi e non domani.

Costretto a capitolare, Marco si appellò alla moglie, bisognava sentire anche lei, ci voleva una dilazione. Ma Gerardo che si vedeva in pugno la preda, non aveva voglia di allentarla: « Va bene» concluse, « parlatene pure con vostra moglie e domani ci ritroveremo tutti e tre».

All'indomani il santo dovette armarsi di santa pazienza per sopportare gli umori irrequieti della donna che passava ininterrottamente dalle escandescenze furiose verso il nemico agli scoppi convulsi di pianto per il figlio ucciso. Seppe attendere, poi l'assalì a sua volta con l'irruenza della sua carità finché non vide quegli occhi gonfiarsi di pianto purificatore al pensiero del grande Ucciso del Calvario che moriva perdonando i suoi crocifissori. Allora fece chiamare il mastro giurato per la stipulazione dell'atto pubblico dell'avvenuta riconciliazione e partì per Muro dove l'attendevano altri gravi impegni.

Questa volta i bravi Muresi, di solito indolenti, si proponevano di emulare gli abitanti di Corato e di Castelgrande per festeggiare il loro illustre concittadino, ma Gerardo, avutone sentore, preferì evitare la folla e si ridusse nel convento dei Padri Cappuccini. Là, tra i cipressi della montagna sassosa, voleva ritrovare quella quiete esterna che tanto bramava. Ma s'ingannò. La fiaccola ormai era accesa e non poteva più nascondersi sotto il moggio. A mano a mano fu risucchiato dagli avvenimenti che trasformarono la sua andata in un fatto di pubblica importanza.

La prima visita fu un atto di cortesia verso il suo antico vescovo mons. Moio che, travagliato dalla podagra e in preda a spasimi di varia natura, passava la giornata a letto o inchiodato sul suo seggiolone. Quando costui lo vide entrare con quel passo disinvolto e quella faccia gioviale: « O Gerardo mio », esclamò, « pregate per me, perché mi passino questi dolori».

Ed egli con tutta franchezza: « O Monsignore, se vi passano codesti dolori, V.S. Illustrissima non si salverà, perché non è di gloria di Dio, né della sua volontà che vi abbiano a passare».

E lo lasciò consolato con la promessa di tornare. Tornò infatti altre volte durante questo viaggio e tornò ancora ogni volta che si portava in Muro. Allora la prima visita era sempre per il vescovo che lo attendeva al solito posto, abbozzando al sorriso il volto rugoso. E Gerardo, slargando le braccia, prorompeva immancabilmente in queste parole: « O Monsignore, beata V.S. Illustrissima che patisce tante pene e dolori per Gesù Cristo! Ed io non patisco niente! ». E si allontanava lasciandosi dietro una scia di beatitudine.

Lo ricorderà otto anni più tardi il vecchio Monsignore a un coadiutore redentorista venuto a salutarlo: « Ogni volta che Gerardo veniva da me, mi consolava con quella faccia di paradiso ».

Come il vescovo, anche i sacerdoti vollero sottoporgli gli affari della propria coscienza e del proprio ministero; il Rettore del seminario, vari casi relativi alla vocazione dei suoi chierici; le Clarisse, i loro propositi di perfezione. Queste si rivolsero a Monsignore per averne il permesso : « Sì, sì, », rispose accompagnando la parola con lunghi assensi del capo, « non solo ve lo permetto, ma ve lo consiglio, ma ve lo raccomando. Vale più una chiacchierata con fratel Gerardo che un intero quaresimale ».

E non si sbagliò. In monastero vi erano abusi inveterati che avevano resistito a tutta l'eloquenza dei predicatori, a tutta la dialettica dei padri spirituali: essi caddero come castelli di carta alle prime parole del santo. Una suora si strappò dal collo un cuoricino d'oro che idolatrava. Guai a toccarglielo ! Avrebbe preferito deporre l'abito. Nessuno glielo toccò; fu lei stessa a gettarlo via senza rimpianto.

Un'altra, ancor più fortunata, poté strappare dal cuore un peccato che aveva resistito a molti anni di confessioni ordinarie e straordinarie.

La madre badessa, inferma di febbre terzana, fu guarita con un po' di polvere del sepolcro di S. Teresa e poté riprendere le sue mansioni in un ambiente saturo di fervore.

Diversi borghesi vollero aggiustare le partite della propria coscienza e Gerardo fu ricercato dappertutto ; tutti si disputavano l'onore di baciargli la mano. Eppure, al dire del Tannoia, si manteneva così umile che fu visto più volte, all'ora di pranzo, mendicar con gli accattoni una minestra alla porta del seminario. Ci volle l'intervento del vescovo per far cessare quell'atto di umiltà che a lui sembrava la cosa più naturale del mondo.

Intanto a Castelgrande le cose avevano preso una piega del tutto imprevista. Partito Gerardo e svanita quell'atmosfera incandescente da lui creata, donna Teresa, la madre dell'ucciso, si era rituffata nel suo clima di odio e di passione. Respinse con furia il mastro giurato che veniva per stipular l'accordo e scagliò sul marito una valanga d'ingiurie, dandogli mille volte del vigliacco e peggio; infine gli gettò tra i piedi le vesti insanguinate del figlio, gridandogli: « Questo è tuo figlio, morto ucciso. Guarda queste vesti e poi va, se hai cuore, a rappacificarti con chi l'ha ucciso. Questo sangue griderà vendetta eterna all'uccisore ! ».

E le figlie, scarmigliate come furie, davano man forte alla madre, imprecando anche loro contro il povero padre che si sentì perduto e si chiuse inorridito in un cieco mutismo.

Gerardo, informato dell'accaduto, corse a Castelgrande e andò difilato nella casa di Marco. Qui, raccolta la famiglia, calmo, quasi scandendo le sillabe, rinnovò a tutti l'invito alla conciliazione e al perdono. Don Marco, pallido, gli rispose una sola parola: « Impossibile ! ».

Le donne esplosero in urla e schiamazzi a non finire.

Allora il santo si drizzò sulla persona; il volto prese un'aria grave; gli occhi divennero fiamme e la voce uscì dalla gola con un tono di comando che incuteva terrore: « O per forza o per buona voglia, voi dovete perdonare. Sappiate che la prima volta io venni qua mandato da altri; ora è Dio che mi manda ».

Poi abbassò la voce: « Vostro figlio è in purgatorio e c'è appunto per la vostra ostinazione. Se lo volete liberare fate subito la riconciliazione e poi fate celebrare cinque messe per lui. Ma se non vi riconciliate», e qui la voce si levò terribile come un tuono, « se non vi riconciliate, egli non uscirà dal purgatorio, e voi », aggiunse, fulminandoli con l'indice e gli occhi, « e voi aspettatevi un giusto castigo da Dio. Quale sia questo castigo, io non ve lo dico, ma state sicuri che verrà! ».

E, a passi concitati, si voltò per andarsene, ma quelli atterriti l'arrestarono gridando ad una voce: « Si faccia, si faccia!».

E in quel medesimo istante fu chiamata la parte avversa e lì, tra le lacrime, si scambiarono il bacio di pace.

La pace fu duratura.

Caldo ancora dall'emozione, il santo si portò in chiesa a ringraziare il Signore. Era genuflesso davanti all'altare, quando intese un grido lacerante, poi un tonfo di corpo morto, seguito da una scarica di bestemmie che fece tremar la volta. La voce era acuta, di donna, ma contraffatta e orribile. Accorse gente, accorse anche lui. Una giovane si rotolava per terra, gli occhi sbarrati e stravolti, la bocca aperta alle bestemmie più sozze. « Povera creatura! » si mormorava dintorno, « sono anni e anni che fa così ».

Gerardo le si fece più vicino, proprio mentre ella vomitava un'altra bestemmia ancor più sconcia e con voce tremante, ma autorevole, le disse: « Chiudi la bocca! ».

Poi, rivolto allo spirito maligno, aggiunse: « Io ti comando, in nome della SS. Trinità, di lasciar questa giovane».

Allora s'udì uno strappo violento; il volto dell'infelice si gonfiò, divenne paonazzo, come se un malloppo le serrasse la gola; un ultimo sforzo e tornò normale. Era guarita. Mentre prima, al sentir nominare le cose sacre, dava in bestemmie e nei momenti più solenni della messa usciva in atti sconci, ora riprese in pieno l'esercizio della vita spirituale: pregava a lungo e si accostava compostamente in chiesa con edificazione di tutti.

Gli ultimi giorni di Gerardo in Castelgrande si trasformarono in una missione vera e propria. Non si limitò più ad ascoltare chi veniva a visitarlo; lui stesso si mise alla ricerca dei bisognosi. Prima gli ammalati, i prediletti del suo cuore. Li visitò casa per casa, dando ad ognuno una speranza, spesso una guarigione. Così avvenne a un bambino di tre anni, di nome Antonio Pace, ammalato fin dalla nascita di rachitismo ribelle. A ogni tentativo di muoversi si afflosciava piangendo per terra.

Gerardo, andato da lui per invito del dottor Gaetano Cianci, si fermò a guardare quella mucillaggine appassita gettata su un seggiolino, quelle braccia, quelle gambucce rattrappite, quegli occhietti seminascosti dai capelli; poi lo segnò sulla fronte, dicendo alla mamma: « State di buon animo, perché in seguito non avrà più tali incomodi». Il bambino, come avesse compreso, si mise a sbattere le gambucce contro i pioli del seggiolino e a dimenare le braccine, magre come due stecchi. Da allora cominciò a migliorare e a dare i primi passi annaspando, poi si drizzò con sicurezza. Visse sano e robusto fino alla tarda vecchiaia.

Con gli ammalati del corpo, cercò gli ammalati dell'anima: i peccatori. Li inseguì uno per uno nei loro nascondigli e li riportò a salvezza.

Tra gli altri si ricorda una banda di quindici giovinastri sfacciati e libertini che formavano lo scandalo del paese. Spavaldi e sguaiati, vollero affrontare il santo con l'arma del ridicolo, ma l'arma si rese inservibile. Cosa curiosa! Avevano riso dei migliori oratori ed erano costretti a piangere alle parole semplici, dialettali, dell'umile Fratello.

All'ora della partenza, la buona signora Federici, con un senso di timidezza quasi pudico, presentò a Gerardo la figliuola di tre anni, rimasta cieca per il vaiolo. Aveva operati tanti miracoli a beneficio degli altri, ne operasse uno per lei che si era prodigata tanti giorni per dargli un'ospitalità confortevole, per lei, sua concittadina, che egli chiamava confidenzialmente la paesana.

« Preghiamo insieme», rispose.

Dopo qualche istante, alzò gli occhi sulla donna che attendeva ansiosa e le disse con tono ispirato : « Se la vostra Giuditta riacquisterà la vista, farà cattiva riuscita ; perciò dovete rassegnarvi alla volontà di Dio. Ma fatevi coraggio: la figliuola sarà compensata della sua infermità, perché avrà più talento delle sorelle e riuscirà dove le altre non riusciranno».

La mamma tacque sospirando, ma più tardi potette toccare con mano la verità di quelle parole. Perché Giuditta crebbe laboriosa e saggia. Passava la sua giornata al telaio dove rivelava un'abilità eccezionale: conosceva con i polpastrelli delle dita il colore dei fili e ricamava alla perfezione. D'udito finissimo, distingueva al passo le persone e si moveva con sveltezza per ogni parte della casa. Era inoltre tanto saggia che divenne la seconda madre delle sorelle minori.

Questo avverrà più tardi; ma in quel momento il sospiro della signora Federici fu tanto accorato che il santo ne rimase profondamente colpito. Se ne ricorderà durante il ritorno, quando fu raggiunto da un corriere che gli riportava un fazzoletto dimenticato nella casa ospitale. « Se lo tenga la paesana!» esclamò con tono ispirato. Fu un segno di benedizioni celesti per lei e per le donne dei dintorni che lo usarono nei travagli della maternità.

Quando Gerardo si pose in viaggio, racconta il padre Caione, il paese « si scasò » : uomini e donne, giovani e vecchi, rovesciati nelle vie, salutavano freneticamente il loro grande benefattore. Giunti fuori le mura, più di trecento persone gli si incolonnarono dietro tra canti e benedizioni di gioia.

Era un chiaro mattino ; nelle campagne assolate i mietitori in fila brandivano le falci sulle larghe distese di grano e le donne legavano i covoni; ma al passaggio del santo, tutti si facevano sulla strada, acclamando e inginocchiandosi sulla polvere. Molti, però, non conoscendolo, s'inginocchiavano davanti al primo cavaliere che apriva il corteo, cercando di baciargli il lembo della veste e chiedendo la sua benedizione. Era fratel Fiore, il quale, spaventato da quella dimostrazione, non faceva che ripetere: « Non sono io il santo! Eccolo là, viene appresso ! ».

E accennava a un fraticello pallido e sfinito che allungava le braccia in cerchio come avesse voluto stringere al cuore tutti quanti, sfavillando due lucidi occhioni da sotto il cappello a cencio. Cosi per oltre un miglio di strada ; poi lentamente la gente si disperse. Invece i quindici giovanotti, sempre stretti intorno al santo, proseguirono imperterriti fino a Caposele, incuranti del viaggio e delle scarpinate in montagna. Si confessarono tutti e quindici dai missionari e rimasero così soddisfatti da tornare per molto tempo ogni sabato per ripetere la loro confessione, percorrendo dodici e più miglia di sentiero montano e passando la notte precedente la domenica sotto baracche di legno.

Questo episodio commosse talmente il padre Cafaro che esclamò con molta enfasi, in dialetto : « Dove arriva costui, arriva il terremoto ! ».

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021