San Gerardo Maiella
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Le chiavi del paradiso

Capitolo XXXII

Ai primi di novembre, Gerardo tornò a rivedere la collina silenziosa di Materdomini, cullata dal fragile sole autunnale. Giungeva appena in tempo per accogliere l'ultimo respiro del chierico Pietro Picone, che si spegneva lentamente il 9 novembre, consumato dalla tisi. Non lo pianse, non poteva piangere chi, prima di morire, aveva dato l'appuntamento in paradiso a tutti i confratelli: « Addio; Padri; addio, Studenti; addio, Novizi; addio, Fratelli; arrivederci in Paradiso! ». Arse solo d'invidia, consolandosi nella speranza d'una prossima fine. Oramai era minato internamente dalla stessa malattia del Picone. Ne erano i segni premonitori la tosse insistente e le chiazze di sangue che depositava nei fazzoletti. Sembrava dovesse esalare anch'egli da un momento all'altro l'ultimo respiro, invece bastava vederlo all'opera per domandarsi donde attingesse tanto vigore.

Da principio il lavoro non fu gravoso; ebbe la portineria e il guardaroba; due uffici graditi, specialmente il primo che lo metteva a contatto coi bisognosi. Perciò, quando gli fu consegnato il grosso mazzo di chiavi, se lo fece tintinnare compiaciuta davanti agli occhi, dicendo: « Queste chiavi mi debbono aprire il paradiso ! ».

E se le passò alla cintola come un ornamento di lusso. I tempi liberi li impiegava a tradurre in cartapesta la sua visione di Gesù appassionato. Appartengono a questo periodo le poche cose autentiche, uscite, più che dalle sue mani, dalla sua anima: secondo il p. Caione, due Crocifissi. Uno, spedito alla famiglia Bosco di Montella e conservato in un oratorio del luogo; l'altro, colorato dopo la sua morte, custodito nel collegio di Materdomini. Il Tannoia, invece, ricorda un terzo Crocifisso presso la famiglia Coppola di Vietri di Potenza e l'Ecce Homo della sagrestia di Deliceto.

Lavorava estatico in un cantuccio della falegnameria, come un sacerdote che consuma sull'altare il suo sacrificio. Era felice.

Non così quel fratacchione basso e tarchiato che vicino a lui manovrava la pialla e l'ascia. Stefano Sperduto ci teneva al suo lavoro e più alla falegnameria, divenuta ormai il suo regno. Riguardava perciò come un ingiusto invasore chi osava penetrare in quel bassofondo, creato a sua immagine e somiglianza. Quante volte era tentato di prendere a pedate quel povero artista che dipingeva inginocchiato in un canto e veniva a infastidirlo ogni momento per colla e colori!

Sulle prime abbozzò, borbottando, poi cominciò a seccarsi maledettamente. E un giorno, perché lo capisse, nascose ogni cosa. Così, quando se lo rivide davanti con la solita richiesta, alzando appena gli occhi dalla tavola che stava piallando, rispose: « Non ci sono più ». « Qui, no», soggiunse Gerardo, « perché li hai nascosti nel pagliericcio !».

Lo Sperduto masticò male, ma, vedendosi scoperto, fece buon viso a cattivo giuoco, deciso a prendersi la rivincita alla prima occasione. Infatti, poco dopo, dovendosi recare a Teora, suo paese natale, mise colla e colori in una pignatta, nascondendola in un buco della falegnameria. Gerardo, col fiuto d'un bracco, la scovò e la pose sulle braci. Non l'avesse mai fatto ! Ne venne fuori una poltiglia appiccicosa d'un colore indefinito.

Quando fratello Stefano tornò, l'artista mortificato gli si presentò davanti, umilmente, col corpo del delitto : « Credevo », disse, « di trovare la solita colla e invece guarda un po' che cosa ho trovato : un pasticcio che non so capire! ».

Stefano non ci vide più : diede due o tre salti per l'aria, annaspò in cerca di qualche cosa, finché non gli capitò fra mano una stanga e si gettò addosso al povero Gerardo. Questi che lo sovrastava con la sua alta statura, per facilitargli il compito, si mise in ginocchio. Fu il colmo. Stefano continuò a martellare, finché n'ebbe forza. Poi si fermò con la stanga in mano e la schiuma in bocca. Non trovava parole; finalmente, con voce strozzata, proruppe: « Vuoi proprio che ti uccida ? Rispondimi!».

La vittima immobile ascoltava in ginocchio.

Dopo una lunga pausa, Stefano concluse: « Va va, non ti voglio uccidere !».

Gerardo uscì sereno e tranquillo ; ma l'altro fu assalito dal rimorso. Pianse, si picchiò il petto e, finché visse - cioè per circa cinquanta anni - raccontò a tutti tale miracolo di pazienza, conchiudendo ogni volta con queste parole: « Gerardo, sì, quello era un santo ! Ed io, quando lo vidi sul letto di morte, prossimo a volarsene al cielo, gli dissi: Gerardo, fratello mio, prega Dio per me. Ed Egli: " Si, si, tu mi sei stato sempre compagno ed amico: voglio pregare per te " ».

A questi ricordi scoppiava in lacrime come quel giorno, in quell'oscura falegnameria. Da allora fratello Stefano non ebbe più gelosia del confratello, anzi andava lui stesso ad invitarlo, ma ormai il nostro artista aveva ben altro da pensare.

L'autunno era stato piovigginoso, poi le nubi si sciolsero in neve e la neve, sferzata dal vento, divenne una lastra di ghiaccio che ridusse tutto quel frastaglio di colli a una vasta distesa di morte. « Erano caduti tre palmi di neve», annota il padre Caione.

Le conseguenze per la popolazione, formata in gran parte di braccianti pagati a giornata, con un salario minimo e senza possibilità di risparmi, furono terribili. Il ristagno del lavoro significò la miseria e la fame. Sarebbe stata la morte se la carità cristiana non avesse sopperito alle deficienze dell'organizzazione sociale. E la carità in quel gennaio del 1755, a Caposele, ebbe un nome Gerardo. Egli l'aveva concepita come un servizio reso al prossimo, elevato al livello di Dio ; perciò si fece tutto a tutti, rifocillando i corpi e consolando le anime di centinaia di persone. Il superiore gli aveva detto: «Voi avete da pensare ai poveri, altrimenti moriranno. Io, da parte mia, non vi metto limiti».

E lui, come al solito, aveva preso la parola alla lettera. Cominciò a distribuire la sua biancheria personale. Si privò di maglia e corpetto, restando con la semplice veste talare, gettata sulla camicia, mentre aumentavano la tosse e gli sbocchi di sangue. Poi diede di piglio alle federe, alle lenzuola, alle coperte, alle zimarre, alle talari dimesse; insomma a tutto ciò che trovava nel guardaroba e confezionò giubbe, pantaloni e mantelli per piccoli e grandi, senza guardare al taglio o al colore delle stoffe : purché tenessero caldo.

Col guardaroba vuotò granaio e dispensa, perché ci fosse cibo per tutti.

Giungevano gli uomini coperti di cenci, i piedi affondati nella neve, i ghiacciuoli sulle barbe sporche; giungevano le donne avvolte in mantiglie bianche; giungevano i bambini coi corpiccioli rattrappiti che sciacquavano nelle grosse giubbe dei fratelli maggiori. Giungevano silenziosi, le teste rinsaccate nelle spalle ricurve, quali cariatidi ambulanti. Unico segno di vita, tra il pallore del cielo e il nevischio dell'aria, il pianto dei piccoli. Ma essi erano i primi a saltellare di gioia quando scorgevano gli enormi bracieri accesi davanti alla porta e la caldaia di minestra fumante. Gerardo andava loro incontro ; riscaldava le loro manine nelle sue, dicendo con voce tremante di commozione: « Noi abbiamo peccato e questi innocenti ne portano la pena! ». Gli adulti, in piedi, a semicerchio intorno al fuoco, assentivano mestamente.

Poi veniva la distribuzione della minestra e la scena si animava. C'erano urtoni e battibecchi; volava qualche insolenza, ma il santo era pronto a portare la pace. C'era chi si cacciava avanti per avere una seconda razione; c'era chi trangugiava in fretta e ripresentava la ciotola vuota, tra le proteste di chi temeva di restar digiuno. Gerardo osservava divertito le astuzie della fame e diceva agli zelanti: « Lasciate stare! Sono furti che piacciono a Gesù Cristo ! Non temete! Ce n'è per tutti». E saltava con moto perpetuo dalla porta alla cucina al refettorio, manovrando ininterrottamente quelle grosse mani che avrebbero voluto abbrancare perfino le pareti.

I confratelli, bravi senza dubbio, ma incapaci di raggiungere tali vette di carità, brontolavano e protestavano. Lo stesso padre Caione si credette in dovere di richiamarlo: « Fratello mio, non allargar troppo la mano, perché il grano va mancando e siamo ancora al principio dell'anno... I poveri, invece, aumentano sempre! ». Ed egli con un tono tra il serio e lo scherzoso: « Padre mio, voi avete il cuore piccolo e non sapete quanto è grande Dio e quanto onnipotente la sua mano. Se ne dubitate, mettiamolo alla prova diamo un giorno di ricreazione ai poveri con un buon pranzo. Poi vedrete che cosa Egli sa fare ».

Il suo parlare era tanto risoluto che il superiore non seppe dir altro che: « Fai come vuoi ».

Il giovedì seguente, Gerardo chiamò a raccolta i fratelli e insieme stacciarono grandi quantitativi di farina, mentre il cuoco faceva fuoco accelerato sotto i calderoni. All'ora di pranzo, la folla, composta di alcune centinaia di poveri, fu fatta sistemare nel refettorio della comunità e i fratelli, i chierici e i padri si posero a loro servizio. Gerardo scoppiava di gioia: con due forchettoni riempiva i piatti che a mano a mano gli venivano passati, sempre calmo, sempre sicuro nonostante l'afflusso crescente di bisognosi e il diminuire delle provviste. Quando l'ultimo piatto fu colmo, egli fece girare attorno numerose gerle di pane e grossi fiaschi di vino tra lo stupore dei presenti. L'unico a non mostrar meraviglia fu Gerardo che si portò difilato in chiesa, bussò alla porticina del tabernacolo dicendo commosso e soddisfatto: « Padrone, Padrone! » In questa parola c'era tutto il suo ringraziamento al Datore di ogni bene.

Il palese intervento di Dio incoraggiava il nostro santo e lo spingeva alle soluzioni più ardite. Un giorno, racconta il Tannoia, il cuoco preparava i piatti per la comunità, schierandoli sulla tavola di marmo. A mano a mano che li approntava, all'altro capo della tavola le dita furtive di Gerardo ne rovesciavano il contenuto nelle pignatte dei poveri. A un certo punto, il cuoco, stanco del giuoco, gli gridò: « Voglio proprio vedere come va a finire questa commedia! Che cosa ci resta per la comunità ? ».

E Gerardo, bilanciando due pignatte : «Fratello, Dio provvederà ! ».

Ma il fratello continuava a brontolare: «Deve finire questa commedia ; deve finire ! ». E si mise a rifare le porzioni, borbottando tra i denti: « Peggio per loro, mangeranno di meno! ».

Uno per uno i piatti ripassarono nelle sue mani lardellate. Quando l'ultimo fu collocato sulla tavola, dando un'occhiata alla caldaia, gettò un grido di meraviglia: « O che succede ? è il pozzo di San Patrizio questo ? C'è ancora tanta roba!».

E le razioni furono più abbondanti del solito.

Ormai si sussurrava dappertutto che Gerardo moltiplicava le provviste. Una volta l'osservò un chierico che lo aiutava nella distribuzione delle elemosine. Quando l'ultimo pane fu deposto in una mano allungata, tornando indietro, si accorse che i due cofani già vuotati, rigurgitavano di nuovo pane. Lo stesso osservò un altro chierico, il Siniscalchi, che poi lascerà l'Istituto. Aveva ripulito proprio allora un cassone, ma, nell'atto di chiuderlo, lo rivide più colmo di prima.

Alla fine dei pasti, Gerardo faceva disporre la folla a semicerchio sul piazzale attorno ai bracieri: qua gli uomini; là le donne; in mezzo i bambini, e cominciava la sua chiacchierata. Parlava dei doveri d'ognuno con immagini semplici, con parole dialettali, abbassandosi col mento fino a sfiorare i bambini. Poi recitavano insieme le preghiere e li rimandava consolati e satolli.

Quando per il paese si diffuse la notizia che Gerardo moltiplicava il pane e teneva discorsi, alcuni benestanti, specialmente signore, s'intrufolarono in mezzo ai poveri per conservarsi, come reliquia, il pane della Provvidenza. Qualcuno se ne lamentò col santo, tra cui il dottor Santorelli.

« Hai visto ? », questi gli diceva un giorno, « hai visto ? stamattina tra i poveri c'era anche la signora tale, la signora tal'altra. Persone che stanno bene, che non hanno bisogno di nulla e invece vengono a togliere il pane a chi ne ha veramente bisogno. Stai attento. Fai l'elemosina solo ai poveri ».

« No », rispose risoluto Gerardo, « assolutamente no, bisogna farla a tutti, perché tutti la domandano per amor di Gesù Cristo. Altrimenti Gesù non farà più crescere il pane ».

Una cura speciale si prendeva delle giovani in pericolo di barattare il proprio onore per un pezzo di pane. Allora la sua carità acquistava tali sfumature di gentilezza e di riserbo che commovevano le persone interessate.

Un artigiano, non sapendo come sfamare le figliuole, le mandò da Gerardo, ma quelle, vergognose, si posero in un canto, col naso sotto il grosso scialle. Egli, appena le scorse, si avvide del loro bisogno e le pregò di passare più tardi, quando l'elemosina non fosse veduta da altri. Ma le giovani tornarono troppo tardi, quando non c'era più nulla.

« E ora come faremo ? », esclamò appena le vide, « non mi è rimasto nulla, proprio nulla! ». Poi, mentre le due figliuole lo guardavano supplichevoli con la testa piegata sulla spalla, riflettendo un istante, disse : « Aspettate ! ».

Sgusciò dentro la porta e subito riapparve con due pani appena sfornati, d'una forma differente dagli altri. Nessuno seppe mai dove li avesse presi.

Uguale carità dimostrava verso i vergognosi, quelli che non erano avvezzi a palesare la loro miseria. Anche a costoro il santo rivolgeva la preghiera di passare in altre ore. E anche per loro operò miracoli.

Un giorno, tra la folla, c'era un gentiluomo spinto dalla fame, ma umiliato, confuso e rosso fino alla radice dei capelli. Si nascose in un angolo e non ebbe il coraggio di farsi avanti. Se ne accorse il giovane Teodoro Cleffi che lo presentò a Gerardo. « Figlio mio», disse questi, « sei proprio cascato male. Ho dato via tutto ».

Ma poi, dopo un attimo di sospensione, soggiunse: « Aspetta, aspetta! ».

Arretrò di un passo e riapparve da dietro l'uscio, tirando di sotto la veste una focaccia calda calda, d'un profumo sconosciuto. Il gentiluomo se ne andò senza domandarne la provenienza, ma ci pensò il giovane Cleffi, che ispezionò rapidamente forno e cucina. La cucina era spenta; il forno non era stato acceso in quel giorno. E poi era fin troppo evidente che simili bocconi non escono dal forno dei frati.

Anche il padre Caione non seppe mai la provenienza di alcune somme di denaro, portate tre o quattro volte dal santo : « Le ho tro-vate nel buco della chiave! » diceva depositando in fretta le monete d'argento.

Intanto, con lo sciogliersi delle nevi e l'allungarsi dei giorni, un nuovo soffio di vita aleggiò dintorno, mentre i braccianti riprendevano i loro posti di lavoro. Tra la fine di gennaio e i primi di febbraio, la portineria si sfollò gradualmente. Rimasero i visitatori abituali, in gran parte vecchi e inabili. Allora si procedette all'inventario di quello che era rimasto: poco davvero. I granai, vuoti; il guardaroba, spogliato; la dispensa, saccheggiata. Ed era vicina la quaresima con le mute di esercizianti. Come fare ?

Il padre Caione mandò Gerardo a Muro, in cerca di aiuti: lui solo avrebbe potuto picchiare al cuore dei ricchi con l'immenso prestigio della sua santità.

Il viaggio non ebbe la risonanza degli altri, ma operò in profondità nelle coscienze con un succedersi ininterrotto di profezie, introspezioni, miracoli e altre manifestazioni soprannaturali. Ne sappiamo qualche cosa dal giovane Lorenzo Negri che ebbe la fortuna d'incontrarlo sotto l'atrio di un palazzo. Lo aveva conosciuto cinque o sei mesi prima, quando era andato a Caposele per sperimentare nel ritiro la propria vocazione religiosa. In quei giorni si era visto sempre vicino il nostro santo con le premure di una madre. Lo aveva visto anche al momento della partenza con un involtino per il viaggio. Egli aveva protestato vivamente: « No, non occorre. Le giornate sono ancora lunghe; il cavallo è di razza; sarò a Muro prima di sera».

«Dammi retta», aveva risposto Gerardo, «portatelo appresso ti servirà ». E glielo aveva cacciato a forza nella tasca.

Lo aveva preso per farlo contento e si era messo in viaggio. Quale viaggio ! Aveva errato a casaccio tra quegli andirivieni di monti boscosi, finché non fu sorpreso dalla notte in una valle solitaria: notte umida e senza luna. Rifugiatosi in una capanna e accoccolatosi sul fieno, si era allora ricordato delle parole del santo e dell'involtino provvidenziale.

Appena il Negri lo rivide sotto l'atrio del palazzo, Gerardo si scostò alquanto da alcuni gentiluomini che lo accompagnavano e gli disse : « Allegramente, perché non passeranno tre mesi e tu sarai dei nostri».

Il giovane credette di sognare. Era tanto tempo che cercava di entrare nell'Istituto e aveva trovato sempre sbarrata la porta dalla legge civile che gli impediva, come figlio unico, di lasciare i genitori. Era ricorso al fondatore, ma inutilmente. Tutto sembrava crollato, quando le parole del santo gli riaprirono il cuore alla speranza. Poi l'evento confermò le parole. Nel mese di marzo venne la tanto attesa autorizzazione civile ed a maggio il Negri vestì l'abito religioso nel noviziato dei Redentoristi. Ebbe la sorte di assistere alla morte di Sant'Alfonso.

Una seconda profezia di tutt'altra natura la pronunziò contro un feroce bestemmiatore. Un giorno che si recava al monastero delle Clarisse, accompagnato da don Giuseppe Pianese, rettore del seminario, udì, nelle vicinanze di un'osteria, un uomo mezzo ubriaco prorompere in bestemmie contro la SS. Trinità. Pieno di orrore, volgendosi al Rettore, disse - « Queste bestemmie non resteranno impunite e lo vedrete ben presto».

Tre giorni dopo il bestemmiatore cadde in mezzo alla strada, freddato da un colpo di archibugio, senza aver tempo di ricorrere a Dio.

è un raro esempio di vendetta divina, preannunziata dal santo che è stato sempre il messaggero del perdono del cielo. La sua parola giungeva come la luce a ravvivare le anime sepolte nel peccato, a ridestare gli echi segreti delle coscienze, infondendo serenità e pace. Il notaio Pietro Angelo De Robertis era un uomo rispettato da tutti per integrità di vita e onestà professionale. Ma custodiva nell'interno un peccato; lo celava a coloro che gli erano più cari e avrebbe voluto celarlo alla sua stessa coscienza e all'occhio vigile di Dio. Egli aveva nella sua vigna un ciliegio meraviglioso che produceva frutti primaticci davvero squisiti. Tutti ne parlavano e più di tutti lui stesso, quando, ogni anno, con qualche settimana di anticipo sugli altri, poteva preparare cestini di ciliege grosse e mature e inviarle come dono alle persone più ragguardevoli del luogo.

Ma una mattina si accorse che l'albero era stato saccheggiato da un visitatore notturno. Perciò, al calar della sera, si appostò con l'archibugio dietro una siepe. Verso mezzanotte, ecco un'ombra strisciar tra le viti, avvicinarsi alla pianta e cominciar la scalata. Allora uscì fuori con l'arma spianata. Il ladruncolo gli si gettò ai piedi, implorando perdono e promettendo di non farlo più. Ma la notte appresso, alla solita ora, rieccolo strisciar fra le viti e riprender la scalata. Il De Robertis con due salti lo raggiunse: « Ancora qui, furfante! Se ti colgo un'altra volta, me la pagherai per tutte».

Per qualche sera la cosa andò liscia; poi, verso la mezzanotte, riecco il solito fruscio tra le viti. « è lui ! » disse tra sé il notaio e lo lasciò arrampicare; poi prese la mira e lo freddò con un colpo. Scavò in fretta una fossa vicino ad una vasca e lo sotterrò, tornando a casa per un sentiero insolito. Nessuna traccia del delitto ; mai una parola con qualcuno, neanche col confessore. Lo sapeva solo Dio e la sua coscienza tramortita dalla paura. A poco a poco anche il rimorso aveva perduto i suoi denti e tutto sembrava seppellito sotto una coltre di silenzio, nella preistoria dell'anima.

Ma la voce di Gerardo ridestò gli echi della sua coscienza, sbalzando tutti i contorni del delitto. L'infelice riudì i rantoli dell'ucciso fulminato sull'albero e i rimorsi accumulati in tanti anni e in tante confessioni pasquali. Tutto riudì e cadde in ginocchio sbalordito e tremante, riacquistando col perdono la pace.

Non mancò ancora un miracolo, riferito dalla tradizione locale. Un giorno il santo vide sul ballatoio di una casa, una povera mamma che cercava di calmare, ballonzolandolo sulle ginocchia; i lamenti prolungati di un bambino. Si fermò come sempre quando si trovava davanti alla sofferenza: « Che cos'ha che piange così ? », domandò.

E la donna: « Che cos'ha ? Povera creatura! Era vicino al fuoco, accanto a me. Mi alzo per alcune faccende e lui si abbassa ad attizzare il fuoco. Proprio allora dal paiolo gli si rovescia addosso dell'acqua bollente. Si è scottato tutto, povero figlio ! Vedi ? ». E gli scoprì una spalla, violentemente arrossata, mentre i vagiti si facevano più acuti. L'ho spalmato di olio e di cera, ma non è giovato. Anche il medico non ha potuto far nulla : e ne abbiamo comprate di medicine! Da allora non fa che piangere ».

« Oh », disse Gerardo, tracciando sul bambino un segno di croce, « non è niente! Non è niente! ».

All'indomani il bambino era perfettamente guarito.

Con questi segni portentosi Gerardo si congedava dal paese natale. Un mattino di febbraio, mentre il vento spazzava le strade, si rimise in viaggio, salutando per l'ultima volta quei poggi alpestri e quei prati sassosi. A Laviano voltò a destra, attraverso una serpentina, mangiata dalla pioggia, che si contorceva tra le montagne. Fu proprio su questa strada, come narra una tradizione, che il cavallo, scalpitando sui ciottoli, perdette i ferri. Fu rimesso in ordine dal maniscalco di Santomenna, il quale, approfittando che l'avventore era frate e forestiero, chiese un prezzo esorbitante. Era un'aperta violazione della giustizia e il santo divenne di fuoco. Prima lo riprese aspramente ; poi, vedendolo persistere nelle sue pretese, si rivolse al cavallo e gli disse: « Restituiscigli i ferri!».

L'animale, alzando, l'uno dopo l'altro, i quattro zoccoli, li fece ricadere per terra.

Allora Gerardo, senza più voltarsi, nonostante i richiami forsennati del maniscalco pentito e sbalordito, proseguì il cammino. A sera era a Sant'Andrea di Conza, dove prese alloggio presso la famiglia Cianci, conosciuta due anni prima a Castelgrande. Fu una festa per tutti. Egli sedeva al posto d'onore, circondato dai padroni e dagli amici e tutti lo ascoltavano, incuranti dei cibi preparati con grande maestria. Lo ascoltava perfino una bambina di quattro anni, seduta a un lato della sala con la maestà d'una matrona, sgranando verso di lui due occhioni nerissimi, il cucchiaio a mezz'aria. Gerardo la fissò un momento col suo sguardo scrutatore: poi andò a sederle vicino, dicendo: « Voglio mangiare con una futura sposa di Gesù Cristo».

La bambina arretrò spaventata, ma poi sorrise, vedendo che il santo l'accarezzava, aggiustandole il bavaglino intorno al collo e affondando con lei il cucchiaio nella tazza. Tutti risero e presto dimenticarono quelle parole che credettero uno scherzo gentile. Se ne ricordarono solo molti anni dopo, quando la bambina, divenuta ormai una giovinetta, chiedeva di restare nel monastero di Atella dove era stata educanda.

Anche da vecchia soleva ricordare il fatto alle giovani suore « Ho mangiato con un santo!». E rideva compiaciuta.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021