San Gerardo Maiella
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Risate in Paradiso

Capitolo VI

Raia del Castello, ora ribattezzata nel nome di Francesco Saverio Nitti, è la via principale, anzi l'unica di Muro. Le altre sono un intrico di scale e scalette, sgrossate sulla roccia e affondate tra la fungaia di casette screpolate. Ma Raia del Castello è la via per eccellenza, l'arteria che squarcia trasversalmente la cittadina, congiungendo la parte bassa, appiattata ai piedi della collina occidentale, e il quartiere alto, addossato al vecchio castello. Da qui la vista spazia su tutta la piana del Platano che si allunga tra due catene di montagne spolpate fin laggiù dove l'Alburno biancheggia all'orizzonte in un velario di nebbia. è dunque una specie di belvedere e questo ne spiega il nome locale. Raia significa infatti terrazza, balcone aereo aperto sul vasto panorama.

In questa via, al numero 63, se ne tornava, dopo la morte di Monsignore, una sera di fine giugno del 1744, il nostro Gerardo. Erano ad attenderlo la mamma, alquanto raggrinzita dagli anni, e la sorella Elisabetta, l'ultima. Anche l'Anna, oltre la Brigida, era assente, volata sposa a un certo Stefano Cerone, di professione vaccaro e nullatenente. Abitava in una catapecchia lì accanto. Ora era la volta di Elisabetta che aveva raggiunto i ventun'anni e riceveva dallo sposo il corredo per il gran giorno. Le vesti venivano bellamente ordinate in un canestro di vimini, chiamato lo stizzo, ed erano tutte di prammatica: la gonna di panno nero, il corpetto scarlatto, il busto colorato coi lacci di seta, la gorgiera di merletto, il grembiule nero, le calze rosse, le scarpe con la fibbia d'ottone, la mussola bianca per il capo e il grosso scialle a strisce multicolori. La giovane dava salti di gioia e non sapeva resistere alla tentazione di provare ogni cosa allo specchio, dondolandosi in tutte le direzioni. In tale atteggiamento la colse il fratello che fu lì lì per rovesciare lo stizzo nella polvere, ma si contenne e finì per gridarle: «Dà fuoco a codeste tue vestimenta!». Ma la sorella, naturalmente, non fu dello stesso parere e, poco dopo, anche lei spiccava il volo dalla casa paterna.

Gerardo, rimasto solo con la mamma, cominciò a riflettere seriamente sul da farsi. Il primo pensiero corse alla vocazione religiosa che, assopita durante i mesi di Lacedonia, ora risorgeva più forte. Perciò risalì la collina, rivide la lunga fila di cipressi e il bianco convento dei Cappuccini, ma fu respinto ancora una volta dal guardiano padre Sisto da Muro e ancora per lo stesso motivo : la salute malferma. Ora più che mai. Infatti, a diciotto anni, dopo il rapido sviluppo dell'adolescenza, sembrava una pianta intristita sul nascere : lungo, magro, ricurvo, la faccia sbiadita. Senza quelle due pozze chiare che scintillavano tra il maschio naso e la fronte spiovente, si sarebbe detta la maschera della morte.

Ridiscese la collina e riprese il suo posto in famiglia, mentre i parenti discutevano del suo avvenire. Li lasciò dire senza interloquire, senza curarsi di nulla, fiducioso nella Provvidenza. Alla fine si lasciò condurre al numero 61 del portone accanto, dove il trentacinquenne Beniamino Mennonna aveva impiantato il suo negozio di sartoria. Vi riprese l'apprendistato in compagnia di un giovane della stessa famiglia Mennonna, di nome Vito. Costui, con la bontà generosa dei suoi sedici anni, seppe cogliere nell'aria apparentemente distratta del condiscepolo un tesoro di buona volontà e spronarlo e guidarlo. Soprattutto guidarlo, perché Gerardo aveva bisogno di guida. Lasciato a se stesso, non avrebbe saputo resistere alle attrattive della contemplazione, all'evasione verso il cielo. Ci voleva la voce dell'ubbidienza per richiamarlo sulla terra e ci voleva un po' d'indulgenza per compatire le sue scappatelle. Qualche volta, per esempio, si eclissava per ore e per giorni, e forse proprio quando c'era più bisogno di lui, ma Vito sapeva che il compagno seguiva la voce di Dio e lo lasciava fare. Anzi ne subiva lentamente l'influsso, un influsso salutare che non potrà dimenticare con gli anni. Lo andrà a visitare a Caposele per vederlo rivestito dell'abito religioso e godersi la sua santa conversazione e fino alla morte non si stancherà di ripetere le cose meravigliose di cui era stato testimone nei giorni dell'artigianato della Raia. Ma egli morrà troppo presto per trasmettere al figlio Pasquale, il futuro testimone dei processi, il racconto di tali meraviglie che ci giungeranno sprovviste della necessaria garanzia di autenticità e inquinate da elementi fantastici e assurdi. Scegliamo, perciò, dalle deposizioni del figlio un solo racconto, se non altro come documento di vita vissuta nell'umile lavoro quotidiano in cui si affinano le virtù e si maturano i caratteri.

Un giorno una signora della famiglia Mennonna aveva preparato il bucato: la biancheria, intrisa d'acqua bollente e di cenere, attendeva di essere risciacquata nel fiume, strizzata e sciorinata al sole. Era il lavoro più pesante e chiese l'aiuto di Gerardo. Questi fu felice di darlo. Con la canestra sulla spalla, il fianco violentemente piegato dall'altra parte, s'incamminò per la Raia del Castello, poi scese per un viottolo campestre verso il fiume San Maffeo, sempre seguito dalla signora e da una bambina del vicinato, Angela Maria Pepe, la futura sposa di Vito.

Era una di quelle giornate primaverili d'una serenità così fragile che un alito di vento basta a turbare. Il cielo era sereno; intorno intorno le creste si disegnavano nette e precise e la brezza era carica di pollini e di odori. Discesero nell'acqua, subito avvolti dagli spruzzi e dalle schiume, ma, poco dopo, si avvidero che il sole appariva e spariva per il rotto delle nuvole. Poi le nuvole si fecero grosse e nere e cavalcarono verso di loro, gravide di minaccia. Ebbero appena tempo di rifugiarsi in un pagliaio vicino che già la pioggia scrosciava con violenza. Sarà un piovasco primaverile, pensarono; ma la pioggia s'infittiva e il cielo si abbassava sulla terra. Era un pomeriggio inoltrato e la povera donna fu presa dallo spavento di dover passare la notte in quel luogo umido, o tornare a casa al buio, per sentieri impraticabili. Diceva dunque fra sé: « Ed ora come facciamo a tornare a casa ? », mentre la bambina, atterrita dalla tempesta, piangeva. I singulti riscossero Gerardo dalla preghiera e non seguì che il suo impulso. Precipitandosi sotto la pioggia a braccia aperte « Signore », gridò, « Signore, come facciamo a tornare a casa ? ». La pioggia cadeva portata dal vento e strideva sugli alberi, anch'essi agitati e sconvolti, ma appena l'ultima sillaba si sperse nell'aria, le nubi rotolarono in fretta lungo la corrente del fiume e un raggio di sole rigò da parte a parte la valle, seminando manciate di perle tra il verde delle brughiere.

Allora raccolsero i panni e risalirono la collina.

Il tirocinio si protrasse per molto tempo e forse non cessò mai del tutto. Gerardo dovette conservar sempre qualche dipendenza da Vito per consigli e direttive, anche quando, come si rivela dal catasto del maggio 1746, egli gestiva un negozio in nome proprio. Lo esigeva la sua stessa abilità non davvero straordinaria nel mestiere. Ma egli compensava il difetto con due qualità non comuni: onestà e carità spinte agli estremi. Ce n'era a sufficienza per farsi una propria clientela tra gente di bassa condizione, tra quella che non aveva molto da spendere, che pagava magari in natura al tempo del raccolto quando tutto andava bene, o non pagava affatto per mancanza di mezzi o di volontà. E Gerardo attendeva con invitta pazienza di essere soddisfatto dai debitori, rimettendosi alla loro discrezione, contentandosi di margini irrisori o delle sole spese vive, e rinunziando anche a queste in caso di povertà assoluta. Era il servitore dei poveri e la sua carità non conosceva misura, tanto che mamma Benedetta gliene mosse lamento: « La carità va bene, ma bisogna pure pensare a noi che siamo più poveri degli altri».

E lui: « Mamma, per noi c'è Dio: Egli non ci farà mancare il necessario ».

E si raccontano i prodigi della sua carità: prodigi validi soltanto come trascrizione sensibile del suo buon cuore.

Una volta entrò un povero con la stoffa sotto il braccio. Gerardo la svolse, la misurò, poi gli disse: « Un vestito ? Ma la stoffa non basta». E gli spiegava: «Tanto per la giubba ; tanto per le faldine ; tanto per la camiciola e tanto per i calzoni».

Il contadino borbottò qualche cosa sotto l'ispida barba e Gerardo comprese la sua disdetta. Perciò soggiunse: « Aspetta, buon uomo, ora misuriamo meglio ».

Riavvolse la stoffa; la passò e ripassò rapidamente con la mezzacanna ; vi tracciò sopra lunghi segni col gesso e cominciò a tagliare con lena. Finita l'operazione, gli rimise in mano un involtino: « Tenete : è la stoffa avanzata ». E lo rimandò confuso e sbalordito.

Un'altra volta un povero gli tese la mano. Gerardo, fruga e rifruga, trovò uno spicciolo e glielo diede. Non s'era ancora spenta l'eco dei suoi passi che un altro si affacciò col medesimo gesto e la medesima cantilena. Frugò ancora dappertutto: più nulla. Che fare? Da un lato la pentola gorgogliava sul fuoco: « Prendete, non ho altro ! » E continuò a lavorare tra un segno di croce e un atto di amore al suo Dio. A fine settimana, un buon repulisti nelle tasche e nel bancone: contato il denaro, ne faceva tre mucchietti : «Il primo è per i poveri: essi sono i padroni. Il secondo è per le anime purganti: sono povere anche loro. Farò celebrare delle messe da don Giuseppe Racano. Il terzo - ma era il più piccolo - è per la mamma ».

E per sé ? Per sé ce n'era sempre d'avanzo. Gli bastava un cencio per coprirsi e qualche cosa per non morir di fame : un frutto o un frusto di pane, avuto dai clienti quando lavorava a domicilio. Lo sgranocchiava allegramente tra una gugliata e l'altra e intanto si prendeva giuoco dei presenti con una abilità da prestigiatore. Faceva sparire capi di vestiario che riapparivano poco dopo davanti agli occhi attoniti delle donne ; approfittava delle loro distrazioni per fingere di tagliare qualche ciocca dai grappoli d'uva che pendevano dai soffitti per l'inverno.

E le donne a protestare: « Ma Gerardo, che fai ? ».

« Nulla, nulla, osservate!». E i grappoli apparivano intatti, come quando vi erano stati appesi dopo la vendemmia; ma intanto egli scoppiava a ridere e comunicava a tutti la sua ilarità.

Nessuno avrebbe allora immaginato che quel giovane dalla conversazione facile e arguta fosse un solitario, come gli anacoreti del deserto.

Questa duplicità di carattere ha sorpreso molte volte i contemporanei, i quali non hanno sempre saputo ricongiungere i diversi aspetti della sua personalità. Chi ha visto in lui solo il Crocifisso e i flagelli ha dimenticato la burla scanzonata e ingenua che fioriva spontanea sulla sua bocca sempre atteggiata al sorriso, o la foga estrosa dei suoi rapimenti che gli valse presso i malevoli la nomea di matto; chi ha calcato la mano sulla sua semplicità e non l'ha intesa nel senso nobile di schiettezza cristallina, senza infingimenti o malizia, ha dimenticato la felicità del suo intuito che sapeva cogliere, con battute originali, il lato comico delle cose. Gli ha nociuto nel rendimento pratico la carenza di una guida che sapesse inserire quella sete di evasione verso le zone soprannaturali nell'ingranaggio del lavoro quotidiano, rendendo armonici i moti divergenti della sua esistenza. La guida verrà più tardi nella religione e sarà, come lui la voleva, di ferro, ma intanto ha dovuto sperimentare tutte le fasi dell'invadenza progressiva della grazia che lo sollecitava nelle forme più inconsuete, al di fuori di ogni logica umana e di ogni calcolo opportunistico. Era una vita senza metodo apparente, senza orario, sempre tesa ad ascoltare l'impulso interiore dello Spirito, come se la terra fosse divenuta un'entità trascurabile e il corpo un involucro da gettarsi alla prima occasione. Entrava in contemplazione nei momenti più impensati, tirando la gugliata, o passando il filo nella cruna e se ne restava immobile come una statua ; s'intravedeva accanto al bancone in ginocchio, tra il fumo, o spariva del tutto, mentre forbici e ditali sbadigliavano alla rinfusa nel negozio aperto ai quattro venti.

Chi allora lo voleva, doveva cercarlo in chiesa a prolungare le sue preghiere, o a Capodigiano, in mezzo ai suoi fanciulli. Li aveva scovati uno per uno, nelle baite, nelle grotte, negli stazzi tra le zampe degli animali, sporchi di terra e di concime e li aveva condotti ai piedi della buona Madre, a pregare, a cantare, ad ascoltare la parola di Dio. L'ascoltavano in silenzio, senza batter ciglio, incantati dalla sua figura alta e pallida che sapeva passare dalle capriole all'aperto, alle istruzioni religiose, usare il loro vocabolario di piccoli pastori, le loro frasi, le loro immagini e travestirle di un sentimento tutto suo che portava l'uditorio ad amare quel Bambino lassù, tra le braccia della più buona delle mamme.

Qualche volta invece amava ritirarsi tre o quattro giorni in una chiesa delle vicinanze per vivere da solo a solo con Dio. Si portava appresso come equipaggiamento, un pezzo di pane e un fiaschetto di vino. Serviva una messa dopo l'altra, poi, quando l'ultima vecchietta era uscita, animava tutto l'edificio con le sue preghìere e le sue penitenze.

A tarda sera era ancora in ginocchio sullo stesso gradino dell'altare, incurante delle tenebre che salivano fra le navate deserte, incurante del freddo e della fame, incurante ancora del sonno che lo abbatteva di schianto sul nudo pavimento.

Quando aveva dato sfogo alla piena degli affetti, se ne tornava a casa, lentamente, riassaporando le dolcezze godute, senza badare se le vesti ciancicate e polverose gli si fossero appiccicate addosso, o se i capelli arruffati gli scendessero sulle guance terrigne. Ma i clienti che aspettavano da settimane la consegna di un abito e se lo vedevano passare davanti con la testa all'aria, quasi cantando le nuvole, non potevano fare a meno di ripetergli: «Gerardo, a che ne stai col mio lavoro?».

E lui, voltandosi appena: «Fate voi, fate voi».

Dopo un certo tempo, tutti lo chiamavano: « Fate voi ». Ed egli, come risposta, mostrando loro il dorso della mano, diceva « M'avete da baciar questa mano ! ».

Tutti scoppiavano a ridere.

Ma i ragazzi, additandoselo l'un l'altro, gli correvano incontro gridando : « Eccolo, eccolo, ora rientra il pazzo ! » e gli lanciavano addosso sassi, terra, bucce di patate, pomodori fradici, ogni cosa. Lo riguardavano come un essere strano, una specie di stregone che passava le notti in commercio con gli spiriti ; curiosavano nel suo negozio ; sbertucciavano quel suo sistema di lavoro a scatti, quel suo atteggiamento nella preghiera e ne parlavano e sparlavano tra loro. E Gerardo rideva, rideva del suo riso beato e il riso aizzava l'istinto crudele della ragazzaglia.

Così, a poco a poco, divenne la favola del paese col risultato di perdere la maggior parte dei clienti più facoltosi. Rimasero fedeli i poveri e i profittatori che agivano per loro esclusivo interesse. E le entrate si assottigliarono, si assottigliarono sempre più.

Le conseguenze di questo tenore di vita non si avvertirono subito, perché Gerardo tirava avanti alla giornata, come gli uccelli dell'aria e le cose esterne filavano col ritmo ordinario. Ma quando avvennero le prime scosse un po' brusche per l'aumento repentino dei balzelli, si vide costretto a fuggire per evitare il fallimento. Fu nell'autunno del 1746.

Da anni gli Orsini succhiavano il sangue dei poveri, ma da qualche tempo erano divenuti d'una esosità senza pari. Prima strapparono a forza i mulini e i forni ai legittimi proprietari ; poi pretesero i monopoli sui diritti di caccia e di pesca ; poi tassarono l'esercizio dell'unico albergo cittadino ; infine, pur di spremere nuove entrate, dichiararono la città « Camera riserbata », cioè esente dai gravami per alloggio e rifornimento di truppe di passaggio, esigendone però, come compenso, un forte contributo in danaro. E, siccome l'università non era in grado di pagare nemmeno gli interessi dei diritti comitali, gli Orsini allungarono le mani sulle terre del demanio, decurtando le rendite destinate al bilancio del comune. Intanto il fisco regio reclamava le sue entrate e, per adeguarle ai proventi familiari, nel maggio del 1746 iniziava il nuovo catasto, mentre l'università, posta tra l'incudine comitale e il martello regio, per fronteggiare i suoi guai, ricorreva all'unica soluzione possibile, cioè all'imposizione di nuove tasse.

Esse, com'era prevedibile, riuscirono dolorose per tutti, ma disastrose per il nostro santo. Colto di sorpresa da questa gragnuola di tasse, egli fu costretto a ricorrere a tutti gli accorgimenti suggeritigli dagli amici : accentuò la propria inesperienza nel mestiere ; regalò qualche anno alla mamma ; disse di possedere solo quell'ago con cui cuciva; ma con quale risultato? Riuscì a placare il fisco regio, ma non i giudici della Bagliva che dovevano sanare il bilancio dell'università. E allora che fare ? Farsi sequestrare un pentolino di rame, o un paio di forbici per vederli esposti all'asta il giorno dopo sulla piazzetta di S. Marco ?

Era alle prese con questi pensieri, quando dal suo concittadino, Luca Malpiede, gli giunse l'invito di recarsi a San Fele, una cittadina situata sulle propaggini nord-orientali del massiccio delle Crocelle. Luca vi aveva aperto un collegio d'istruzione di cui era direttore e maestro. Ora gli occorreva un guardarobiere di fiducia. Gerardo non aveva libertà di scelta e senz'altro accettò.

Chi si reca tra i giovani, si espone al rischio di divenirne la vittima. Costretti a subire una disciplina più o meno dura da parte dei grandi, essi non bramano che di prendersi la rivincita sui loro pretesi carnefici accomunati nella condanna. Perciò sono portati alle osservazioni e ai motteggi. Se riescono a cogliere il lato debole dei loro custodi, se lo pongono come bersaglio, senza curarsi dei dolori che arrecano. è la vendetta della natura indocile. E Gerardo ne fece l'esperienza.

La sua comparsa tra i giovani provocò uno scoppio di risa: sembrava loro uno spiedo, tanto era lungo e magro, con le ossa spolpate e la faccia giallastra, cosparsa di rari peli; quell'aria da « san ctificetur » completava il quadro. è il tipo che fa per noi, pensarono, mettendosi all'opera con qualche epiteto, ma egli rispose con una risata. « Hai visto ? », si dissero l'un l'altro, « abbiamo colto nel segno ! ». E si diedero a gara alla ricerca di diplomi a buon mercato da regalare al malcapitato, tenendosi però a rispettosa distanza, fuori della sfera d'azione di quelle mani che avrebbero potuto dipingersi sulla loro faccia. Invece Gerardo ci rideva di gusto. Pareva dicesse « Come avete fatto a conoscermi così presto?». Allora i più coraggiosi si fecero sotto, con una spinta, una gomitata, uno sgambetto. Egli si rialzava da terra, spolverandosi con una manata i calzoni rattoppati, e poi, ancora una risata. La ragazzaglia non credeva ai propri occhi: « Ma costui le va proprio cercando! ». E allora, incominciò il dàgli, dàgli : ogni giorno, una burla, un lazzo, uno scherzo, e poi a ridere e a raccontare in giro le loro prodezze. Un giorno, in assenza del maestro, lo staffilarono a sangue. Una sera penetrarono nella sua stanza mentre dormiva e lo destarono a colpi di pugni e di staffile, gettandogli all'aria le coperte. Gerardo quella volta non ne potè più. Voleva imporsi, ma la sua voce prese un suono dolce di stanchezza e di rimprovero, e fini per implorare un po' di tregua

« Finitela, mo' ! ».

Qualche cosa di tutto quel baccano doveva pure arrivare all'orecchio del maestro, ma costui, invece di prendere gli opportuni rimedi, volle gareggiare coi discepoli. E spesso, dopo scuola, per scaricare un po' la testa, scendeva in guardaroba a farsi quattro risate con Gerardo. Si portava il suo bravo staffile e fingendo nel nuovo discepolo negligenza o indisciplina, lo richiamava al dovere a suon di nerbo. Questi, curvo sulle vesti da rattoppare, rideva, e l'altro, incoraggiato, continuava la sua lezioncina : « Non hai studiato e ci ridi, eh? ». E giù una frustata che lasciava i solchi. I ragazzi sghignazzavano dintorno e poi, rimasti soli, ritentavano la prova per conto loro.

La vittima intanto non era più a San Fele : era alla reggia di Erode dove il suo Gesù, velato di bianco, veniva esposto agli scherni della sbirraglia. Perciò, ci attesta il maestro nella lucidità del ravvedimento, egli « sofferentissimo, anzi allegro, sopportava le battiture ».

Dopo un mese o poco più di questa prova, esaurito il lavoro, tornò in Muro. Lasciava i piccoli carnefici di San Fele, ma il carnefice principale lo portava con sé: l'amore al suo Dio, quell'amore che chiedeva sempre nuovi strazi e nuove umiliazioni per riprodurre la passione del Redentore, sfruttando abilmente tutte le circostanze di tempo e di luogo.

Correvano in quei giorni le allegrie del carnevale che assumevano forme tanto solenni e impegnative nel Settecento italiano da divenire quasi un rito pubblico. A Napoli convenivano spettatori d'ogni parte d'Europa, ma nelle zone impervie, come Muro, il carnevale giungeva alla sfuggita con mascherate, canti, balli e altri divertimenti popolari.

Gerardo credette giunta la sua ora: si mescolò con le allegre brigate e ne pagò le spese. Un giorno, era una fredda giornata di mezzo febbraio, con una schiera di amici si portò a Castelgrande. Si aggirava con un cappellaccio in testa per le vie della cittadina rivale, pizzicando una chitarra, mentre i compagni cantavano a squarciagola. Dirigeva il coro Piero Racaniello che belava come un capretto scannato; gli altri tenevano bordone. Sgusciarono tre o quattro volte tra vicoli e vicoletti, buscandosi qualche fischiata e qualche torsolo in testa; alla fine giunsero nella via chiamata « Le Porte» perché scendeva ripidamente verso l'entrata del paese. La via, tagliata a gradoni di pietra viva, terminava in una piazzetta con in mezzo la croce.

Gerardo si fermò di botto sul capo della scalinata, con l'aria di chi ha un'idea da lanciare : « Ed ora », disse, « vogliamo farci una bella risata ? »-

E Racaniello : « Che vuoi dire ? ».

L'inventore si stese sul terreno ghiacciato, springando per l'aria due pertiche di gambe

« Facciamo una scarrozzata fin laggiù, alla croce ! ».

I compagni restarono sorpresi: « Ma dici sul serio ? ». E lui: « Su, su, ci sarà tanto da ridere ! ».

Non ci volle altro : i compagni lo afferrarono per le caviglie e si diedero al galoppo, senza voltarsi indietro. Giunti ai piedi della croce, si voltarono per dirgli: « Beh, siamo andati bene ? », ma la voce si ruppe in un grido di spavento : Gerardo era irriconoscibile. Sangue, fango e strappi in tutto il corpo. « L'abbiamo ucciso ! », gemettero, ma egli si rialzò, barcollando, e sorrise: « Non è niente, non è niente ».

La voce di queste stravaganze arrivò anche in Muro, sollevando gli schiamazzi dei monelli. Lo rincorrevano, lo imbrattavano di fango, lo gettavano a terra, lo bastonavano ; anzi, di tanto in tanto; legatolo con una fune, lo trascinavano nella melma per lungo tratto di strada, mentre la vittima ripeteva in tono di dolce rimprovero « Oh Dio, che vi ho fatto io ? ».

Una volta vi fecero segno ad una scarica di neve, tanto da farlo stramazzare a terra e seppellirlo quasi completamente. Chissà che cosa avrebbero fatto, se non fosse accorsa mamma Benedetta, gridando con le mani all'aria : « Canaglia, me lo volete uccidere». E la voce si ruppe in un groppo di pianto, ma Gerardo la consolò dicendo : « Ora sono proprio soddisfatto; tutto è poco per Gesù Cristo divenuto pazzo per me ».

Appena cessavano i monelli, attaccava lui stesso, flagellandosi aspramente. Quando le braccia cadevano inerti dalla stanchezza, ricorreva agli amici. Specialmente a Felice Farenga, un agiato possidente, di un anno maggiore di lui, ma già padre di due figli. Abitava nella casa attigua alla sua, una palazzina di una dozzina di vani e seminterrato, con una facciata. sulla pubblica piazza, un'altra su un orticello con alberi da frutta. Proprio qui, secondo una tradizione, il santo si recava a pregare, ai piedi di un giovane mandorlo.

Felice, già suo compagno d'infanzia, lo lasciava entrare liberamente, trattandolo sempre con la familiarità di una volta. Fu così che l'altro pensò di chiedergli uno di quei favori che chiedeva solo agli amici più fidati, e avanzò la proposta. L'amico, sulle prime, lo credette impazzito, ma dàgli oggi, dàgli domani, alla fine dovette cedere: nessuno gli aveva mai chiesto un favore a prezzo di tante lacrime. Strappato il consenso, Gerardo gli si presentò davanti con un pezzo di fune ritorta, inzuppata di acqua ; si fece legare a un palo e offrì le spalle nude alle percosse. Dopo i primi colpi, il carnefice per forza si arrestò, e l'altro a supplicarlo: « Ancora, ancora! ». I colpi si replicarono con lividure e spruzzi di sangue; Felice si fermò di nuovo e l'altro di nuovo a implorare con la parola e con gli occhi « Ancora, ancora!».

Bisognava nascondere il movente di tali carneficine, e, specialmente, vincere la ripugnanza istintiva degli altri e Gerardo era abilissimo nell'ottenere il doppio intento, presentando la richiesta come una trovata spiritosa e originale per tenere allegra la brigata. Una volta che in casa Farenga molti compagni raccontavano spavaldamente le loro imprese, anch'egli volle dir la sua: « Io sono capace di stare con la testa all'ingiù, volete provare ? ».

I compagni lo guardarono con un certo scetticismo ; ed egli « Dico sul serio, sapete ! Ecco qui una corda, passatela alla trave e poi vedrete ».

Tra la comitiva, c'era un certo Malpiede che aveva fama di buffone e questi fu il primo a raccogliere la sfida. Gerardo si gettò sul pavimento ; il Malpiede gli legò strettamente le caviglie, poi passato un capo della corda alla trave, cominciò a tirare a grossi strattoni, tra lo schiamazzo dei presenti. Il povero corpo strisciava, sobbalzando, sul pavimento sudicio in una nuvola di polvere, poi si sollevò in aria con le gambe e il busto, mentre la testa scopava la terra, poi anche la testa si sollevò, e la faccia si congestionò di sangue.

« Bravo, bravo ! » gridarono i compagni, ricalandolo a terra, « sei stato di parola! ».

E Gerardo, appena riavuto: « Domani sarò ancora più bravo ! ». Il giorno dopo, fece trovare, oltre la solita corda, un mucchietto di stracci inumiditi. « Per che farne ? », chiesero i soliti compagnoni. « Questa volta», rispose, « quando mi avrete appeso, accendete questi stracci e mettetemeli sotto la testa; vedrete che magnifico spettacolo ! ».

La prima parte della scena non fu che la ripetizione della precedente e non destò più sorpresa, ma quando da sotto i capelli penzoloni si sollevò un fumo puzzolente che faceva starnutire e strabuzzare gli occhi, allora tutti rimasero meravigliati della placida compostezza di quella faccia che dondolava dentro il cerchio viscido e denso.

Avranno capito gli allegri compagni che cosa si nascondesse dietro l'apparente sconsideratezza del giuoco ? Sarebbe esigere troppo dalla loro giovinezza. Anzi crediamo che perfino buona parte dei lettori moderni troveranno il giuoco insulso e riprovevole. Che farci ? La divina follia della croce può essere compresa solo da anime privilegiate.

Secondo tale follia, ogni senso doveva avere il suo martirio ; anche l'olfatto. Da qui, il giuoco dei fumo. Ma il giuoco era pericoloso e non fu ripetuto molto spesso. In via ordinaria, Gerardo si contentò di altre mortificazioni, sempre a portata di mano nelle cucine basse e senza camino. Qui i contadini passavano le lunghe sere invernali, seduti sulle panche, allargando le mani screpolate verso un focherello infreddolito che scoppiettava sui sarmenti umidi, mentre il vento filtrava attraverso le fessure, ricacciando indietro il fumo, un fumo acre e denso che crepitava sugli occhi. Allora, quando tutti tiravano indietro la faccia e si facevano schermo con le mani, Gerardo si allungava come una giraffa sulle legna, con la bocca e le pupille dilatate. La scena non poteva sfuggire ai presenti e una volta la padrona di casa, una certa signora Stella, si credette in dovere di riprenderlo : « Ma che fai ? Non ti senti bruciare gli occhi ? ».

Ed egli con una risata: « Ai begli occhi si addice il fumo». Poteva sembrare uno scherzo, una sventatezza giovanile e c'era dietro una volontà eroica d'immolazione e di sacrificio. Solo con qualcuno più intimo e nei momenti di maggiore espansione, il santo si lasciava scappare una parola, una frase che tradiva le sue supreme idealità. « Dobbiamo soffrire», diceva allora, « se vogliamo dar gusto a Gesù Cristo che ha tanto sofferto per noi ».

Ma che ne capivano gli allegri compagnoni di queste idealità? Pigliavano nel senso più ovvio le sue parole, le sue uscite, le sue stranezze e le volgevano in burla.

Una sera alcuni amici gli dissero con una serietà caricata: « Gerardo, vogliamo farci una disciplina ? ».

A lui non parve vero e corse a prendere le sue funi nodose, mentre gli altri due, un ragazzotto sulla quindicina di nome Giovanni Cella e un giovane poco più che ventenne di nome Pasquale Manzi, si fecero dare, dal portone accanto, le chiavi della signora Palumbo. Le legarono con una cordicella e, quando tutto fu pronto, spensero i lumi e si misero all'erta. Appena sentirono rintronare le funi sulle spalle del compagno, gli si accostarono pian piano e giù, botte da orbi. Fortuna volle che le chiavi si sciogliessero, schizzando sulle pareti : così ebbero termine le beffe e le matte risate.

Ma le risate più belle le faceva Gerardo, quando, dopo una di queste carneficine, poteva presentarsi a Gesù col cuore dilatato dalla gioia e dirgli la sua riconoscenza di soffrire per Lui. Allora parlava, rideva e saltava, in preda a un impeto più forte della sua volontà. E fu appunto in uno di questi momenti di estro incontenibile, che Gesù, secondo una tradizione, gli fece udire la sua voce di dolce rimprovero : « Pazzerello, che fai ? ».

E si dice che Gerardo abbia risposto con la più allegra delle risate : « Sei più pazzo tu che te ne stai carcerato per amor mio ! ». Oppure, secondo un'altra versione: « E che vuoi da me ? Non sei tu che mi hai ridotto in questo stato ? ».

Era uno stato di vera ebbrezza spirituale che trascinava il corpo e lo rendeva complice dei movimenti dell'anima, come una corda in mano all'artista. Allora correva e danzava e la preghiera diveniva canto. Specialmente nelle feste principali del Signore e della Vergine, quando aiutava il sagrestano ad addobbare la chiesa, a parare gli altari, a preparare il presepe. La sua soddisfazione era al colmò quando poteva introneggiare una bella Madonna sotto un magnifico baldacchino, tra mille ceri accesi. Voleva lo sfarzo della liturgia, i colori che colpiscono la fantasia, i canti che scuotono il sentimento collettivo. Amava l'impeto travolgente delle moltitudini, come quando la piccola Madonna di Capodigiano sfilava col Bambino in braccio tra i querceti del villaggio setto il cielo ardente di luglio indietro le folle rossoscarlatte di Bella cantavano ; cantavano le folle variopinte di Muro e dei paesi circonvicini, mentre i pastori e i vaccari si disputavano l'onore di portare la statua per la valle; punteggiata di falò, o lungo sentieri alpestri, rasente gli stazzi.

O quando nel Corpus Domini, tra spari di mortaretti e di archibugi, procedeva il baldacchino del Santissimo: in mezzo il vescovo sfolgorante di oro; indietro sorreggevano le aste il sindaco e il mastro giurato; avanti, i quattro eletti del popolo. Tutti con gli alti parrucconi bianchi sul capo, le giubbe gallonate, le trine sul petto e lo spadino al fianco. Dalle finestre, coltri e arazzi, fazzoletti e lenzuola, in una gamma molteplice. di colori. Allora, è sempre la tradizione, il santo sfiorava il terreno con la punta dei piedi, intrecciando danze, rosso in viso e sfavillante negli occhi.

è rimasta celebre una di queste manifestazioni collettive. L'Immacolata era passata come una visione, per le vie del paese, sotto il più bel cielo di maggio ed ora brillava tra i ceri nella penombra del tempio. In prima fila, tra le facce bruciate degli agricoltori, spiccava il volto affilato di Gerardo. Pregò a lungo in silenzio, ma a un tratto il suo volto divenne di fiamma, balzò in piedi, e, sfilandosi l'anello, lo passò nel dito della Vergine. Nessuno capì il significato del gesto. Ma da allora, quando qualcuno gli diceva: « Perché non ti sposi ? », rispondeva immancabilmente: « Mi sono sposato con la Madonna! ».

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021