San Gerardo Maiella
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La calunnia

CAPITOLO X

119. L’arduo consiglio: soffrire e tacere. 120. Pene Interiori, 121. Domenico Blasucci. 122.Le pene dello spirito si aumentano e lo manifesta in più lettere. 123. Una donna ingrata, calunniatrice. 124. S. Alfonso è tratto in inganno; procede contro di lui, e lo punisce. 125. L’attuazione dell’arduo consiglio: Soffre e tace. 126. La rassegnazione. 127. Consolazioni spirituali e segni prodigiosi della sua santità. 128. E’ mandato a Clorani. 129. E’ richiamato a Pagani. 130. E’ traslocalo In Materdomini. 131. Si fa piccolo piccolo. 132. La calunniatrice si smentisce; l’innocenza è riconosciuta.

119. Ai 27 luglio del 1752 S. Alfonso aveva mandato a tutte le case del suo Istituto una lettera circolare, in cui diceva: “Che siamo venuti e a fare alla Congregazione, se non vogliamo sopportare neppure qualche disprezzo per amore di Gesù Cristo? Ma perchè noi tutti siamo miserabili, prego pertanto ognuno, e, acciocchè maggiormente si ricordi di questo che ora dico, glielo impongo anche per ubbidienza, che ciascuno ogni giorno, all’orazione, o al ringraziamento, preghi Gesù Critsto disprezzato che gli dia la grazia di sopportare i disprezzi con pace ed allegrezza di spirito; ed i più fervorosi lo pregheranno positivamente che li faccia essere disprezzati per amor suo.” Non crediamo mestieri far molte parole per persuadere i lettori che con massima fedeltà abbia Gerardo piegato l’animo a questa gravissinma ubbidienza. Pregò, e pregò così efficacemente, che fu esaudito in certa guisa oltre la misura e in modo da spegnere in lui la sete delle umiliazioni e delle pene, qualora ciò fosse possibile nei santi. Nella primavera del 1754, gli venne sopra una prova non meno grave che tremenda, per vie meglio fargli sperimentare il vero di queste parole 17 innocenzadi Santa Teresa: “Dico la verità, più mi inoltro negli anni, e più chiaramente veggo che Iddio tratta con rigore i suoi amici”. Dicemmo ad arte che tal prova gli fu mandata per novellamente e meglio farne esperimento, giacchè fin allora la Provvidenza non gli aveva risparmiato le pene e le tribolazioni, delle quali ha ricco retaggio ogni anima intesa a calcare i passi del Redentore.

120. Nell’udire il racconto dei miracoli, delle estasi e delle alte comunicazioni con Dio, ond’era il nostro Santo di continuo favorito, si penserebbe che egli fosse stato sempre colmo di gaudio e d’esultanza interiore, e la sua vita, se si può dir così, fosse trascorsa come un limpido ruscello tra due sponde di fiori. Eppure fu bene il contrario, chè, come tutti i contemplativi, anche egli dovette inerpicarsi per l’erta aspra e penosa delle aridità, dei timori e delle agonie dello spirito. “ Sono questi, dice ancora la stessa S. Teresa, i doni e le carezze destinatici da Dio, dalla cui mano ci si dispensano su la terra a proporzione dell’amor suo per noi. A quelli che sono più amati, ei ne dona in maggior copia; a quelli che meno ama, meno ne dà. Insomma la distribuzione va misurata col coraggio che trova in ciascuno di noi e con l’amore che gli portiamo”. E’ molto probabile non essere state le pene interne estranee al nostro Santo prima del suo ingresso nella Congregazione. Certo è che, dai primi tempi della sua vita religiosa, egli cominciò a patire una specie di martirio. In ciascun venerdì, lo ricordi il lettore, le sue interne agonie ed abbandoni eccessivi lo riducevano a tale, ch’ei medesimo non sapeva trovare espressione adatta a significarlo al proprio direttore. I tormenti di lui ritraevano in certa guisa quei crudelissimi sostenuti dal Salvatore, quando emise questo grido di sconforto: Dio mio, Dio mio, perchè mi avete abbandonato ? A questo strazio settimanale vennero ad unirsi non poche altre torture, cagionate dal timore inesprimibile d’essere rigettato da Dio. La profonda umiltà cotanto addentro gl’imprimeva nel cuore il sentimento della propria indegnità, da gettarlo tal volta in balia di terribili tentazioni di disperazione, talmente che la sua anima ne andava sommersa in un mare di ansietà o di timori più amari della la morte. E’ vero che tali sofferenze non furono in lui continue, ma è vero altresì, che furono assai frequenti. Più s’inoltrava nella sua carriera e più ancora esse crescevano di numero e d’intensità, come se per lui ogni nuovo grado di unione con Dio avesse dovuto essere preceduto da una purificazione più dolorosa. O quanto terribile deve essere il purgatorio, perchè destinato ad effettuare quella immunità da ogni macchia, onde l’anima è fatta degna di unirsi alla divina Essenza! Se per disporsi all’unione di quaggiù, ombra e cominciamento di quella, le anime sante debbono passare per queste dure purificazioni, qual crogiuolo sarà atto a prepararle a consumare nell’eternità la loro unione col Dio tre volte santo?

121. Dal profondo di tali abissi Gerardo implorava le preghiere delle anime care al Signore, il quale degnavasi talvolta esaudirle, e spandeva su di lui le sue consolazioni. Di ciò ne fa fede quello che leggiamo nella vita del nostro studente Domenico Blasucci . Questo santo giovane sul cadere del 1751 dimorò per alcune settimane con Gerardo nella casa di Deliceto. Un giorno, trovandosi il Santo oltremodo angustiato e col cuore oppresso fra le strette della desolazione, il Blasucci leggendogli dal pallore del volto le interne angustie, lo richiese della causa della sua afflizione. Gerardo gliela manifestò con grande semplicità e nello stesso tempo lo pregò ad aiutarlo. Quei non rispose, ma, tocco da compassione, gli fece un segno di croce sul cuore, ed all’istante il tribolato fratello si sentì ripieno di consolazione.

122. Fu questa una breve tregua, che ben tosto venne nuovamente assalito da pene interiori. Le sue lettere sono come un’eco dei gemiti della sua anima trambasciata. “Non vi scordate di me, scriveva alla Madre Maria di Gesù, e non cessate di raccomandarmi spesso al Signore, porchè ne ho un grandissimo bisogno. Dio sa le solite mie necessità. - E’ del volere di Dio, diceva in altra sua alla stessa monaca, che io chiegga aiuto dagli altri, perchè io non posso aiutarmi. Il suo divin volere è che io cammini in sott’acque e in sotto vento. Così egli vuole e perciò io ancora voglio che sia fatto perfettamente il suo volere. Intanto io mi consolo che V. Riverenza e tutte le vostre figlie siate tanto fortemente impegnate ai piedi della divina Maestà per me”. Ed ancora alla stesesa: Per me, io sto tanto afflitto e sconsolato per essere tanto crucciato dalla divina giustizia che nulla più. Benedetta sia sempre la divina volontà ! Quello che più mi fa tremare e mi dà maggior orrore si è che temo di non perseverare. - Pregate, scriveva ancora alla stessa nel maggio 1753, pregate assai assai Dio per me; chè ho gran bisogno spirituale e Dio sa come sto afflitto e sconsolato. Voi potete, se volete, aiutarmi assai presso di lui: fatemi questa carità”. Queste pene interne crescevano a pari della virtù di Gerardo e si aumentarono a dismisura sul tramonto della vita di lui, quasi che la grazia si fosse affrettata a perfezionare la sua opera. Ci restano due lettere in data dell’anno 1754, da cui si rileva non già un purgatorio, ma per così dire una specie d’inferno. La prima di esse è una risposta alla Priora di Ripacandida, la summenzionata Suor Maria, e dice cosi: “Dio mio, pietà di me! Ahi, madre mia, come, così mi burlate? Sapete che scrivendomi di quella maniera mi date maggior pena per li peccati miei? V. Riverenza sta allegramente, e perciò mi dà sempre la burla. Che volete che faccia? Cosi piace a Dio, ed io assai godo della vostra felicità. Il Signore la conservi a V. Riverenza che gli è tanto cara. Così va al giorno d’oggi. Chi sale, chi scende. Io sono sceso di tal maniera che credo che non mi risolva più, e che le mie pene hanno da essere eterne . Non me ne curerei che fossero eterne, basti che io amassi Dio ed in tutto ciò dessi gusto a Dio, questa è la pena mia: mi credo che io patisca senza Dio. Madre mia, se non mi aiutate, sono grandi guai per me, perchè mi veggio tutto abbattuto ed in un mare di confusione, quasi vicino alla disperazione. Mi credo che per me non vi sia più Dio, che le sue divine misericordie siano finite per me, e che solo vi sia rimasta la giustizia su di me. Vedete e mirate in che miserabile stato io mi ritrovo; e se veramente vi sta la santa fede con noi, ora è tempo di aiutarmi e pregare fortemente Dio per me miserabile. Vi prego che abbiate pietà dell’anima mia, mentre non ho più faccia di comparire avanti alle creature”· La seconda anche diretta alla medesima non è meno rattristante. Egli la scriveva da Napoli, dieci mesi innanzi la sua morte, in questi lugubri sensi: “ lesus Maria . - Cara e veneratissima sorella. Vi scrivo da su la croce. Compatite la mia agonia. Se non fosse la forza che mi fo, non potrei per la copia delle lacrime scrivervi questa mia. Sono tanto acerbi i miei dolori che mi dànno spasimi di morte; e quando mi credo in punto di morire, mi ritrovo vivo per essere più afflitto ed addolorato . Non so dirvi altro, perchè non voglio darvi il mio fiele e veleno per amareggiarvi . So che siete contenta; ma, giacchè siete contenta, pure ciò basta ad animarmi ed invigorirmi in Dio. Sia egli sempre benedetto per le tante grazie che mi fa! In cambio di farmi morire sotto i suoi santi colpi, egli più mi dà vittoria di vita, per darmi sino i tormenti del mio divin Redentore, acciò divenga io il suo imitatore. Egli è il mio maestro ed io il suo discepolo; giustamente debbo imparare da lui e seguire le sue divine pedate. Ma ora non cammino e non ho moto nessuno, ritrovandomi su con esso in croce in mezzo ad inesplicabili patimenti. Per me si prese la lancia per darmi la morte, ed il mio patibolo, in cui ubbidiente mi ritrovo, mi solleva per ottenere vita nel patire. Tutti pare che mi hanno abbandonato, ed io per non allontanarmi in questo stato dalla volontà del mio celeste Redentore, che mi tiene inchiodato su di questa amara croce, chino il capo e dico: questa è la volontà del mio caro Dio, io l’accetto e godo di far quanto mi comanda”. Riportiamo pure queste altre sue parole scritte alla stessa monaca: “Io mi ritrovo pieno di peccati. Tutti si convertono ed io sto ostinato; abbiate pazienza disciplinarvi per me, acciò S. D. Maestà mi perdoni e m’accolga. Così prego tutte le vostre figlie.” E poi aggiunge queste altre parole tanto espressive, che dipingono al vivo la desolazione dell’anima sua: Io sto pieno d’afflizioni, non trovo chi mi creda. Iddio così vuole per me, vuole che muoia senza compassione, abbandonato da tutti; così voglio ,vivere e morire per dar gusto al mio Dio”. Si ravvisa in questi dolorosi accenti il ritratto del discepolo trattato come il suo Maestro, pendente alla croce ed abbandonato da tutti, anche dallo stesso suo Padre, cioè dalla sensibile sua presenza. Per dar compimento all’immolazione della vittima era d’uopo del tagliente coltello. Questo lo somministrò una malvagia femmina ed il colpo fu portato. Affine di meglio disporre la vittima al doloroso olocausto, lo Spirito Santo lo menò per alcuni giorni nella solitudine. Era prossima la settimana santa del 1754 e con essa aprivasi per Gerardo un tempo di altissime contemplazioni e di straordinarie penitenze. Se non che per dare un alimento speciale al suo fervore, egli domandò al P . Fiocchi la licenza di prolungare di alcuni giorni il suo soggiorno nella città di Foggia, ove era stato mandato verso la fine della settimana di Passione per affari della casa di Deliceto. Questa domanda la fece per passare, come già abbiamo accennato di sopra, quei primi giorni della settimana santa nella cappella del Conservatorio del SS. Salvatore, entro cui Nostro Signore erasi le tante volte degnato ammetterlo alle più intime comunicazioni. Nè la domandata licenza gli fu rifiutata. Laonde, dice il P . Landi, “ buona parte della settimana Santa se la passò in quella devota chiesetta, in orazioni continue ed in santo raccoglimento”. Quanto allora passò fra il divin Maestro ed il suo amoroso discepolo è un secreto di cui è trapelata questa sola parola in una lettera scritta a Ripacandida alla Madre Maria di Gesù: “Ho passato quei giorni con infinita consolazione del mio spirito.”

123. Era questo l’apparecchio prossimo per il combattimento. L’esuberante celeste gaudio doveva disporlo ad un eccesso di umiliazione e d’amarezza . Imperocchè appunto allora il demonio gli apparecchiava quell’orrida trama di cui abbiamo fatto innanzi un cenno, e per portarla a compimento, aveva posto l’occhio su quella Nérea Caggiano, cui il Santo aveva procacciata la dote ed aperte le porte di quel santo luogo, dove allora pregava . Era passato appena qualche mese, da che essa era entrata nel monastero del SS. Salvatore di Foggia, che già n’era uscita . Non avendo saputo purgare il suo cuore dallo smodato attacco alla patria ed alla famiglia, era caduta tra i lacci del demonio che, vedutala atta ai suoi foschi disegni, incominciò dal riempire l’animo di fastidio pel santo luogo e finì col tirarnela fuori. Ritornata in famiglia, non ebbe forza di confessare la sua instabilità e, precipitando di precipizio in precipizio, cominciò a dir peste e vitupèro delle sante religiose che l’avevano ricoverata, giudicando che solo per questa via potesse schermirsi dai parenti o dalle amiche, che la rimproveravano d’una condotta tanto leggera. Però v’era di mezzo anche Gerardo, da tutti ben conosciuto. Come avrebbe egli potuto trovarle un posto tra religiose, come essa diceva, tanto depravate? egli che, per aprirle un asilo sicuro, s’era presa la briga d’allestirle anche la dote? Non avendo come rispondere a questa considerazione, si limitava solo a dire: Gerardo, ah sì! Gerardo! ... provandosi così con le reticenze ad ingenerare qualche sospetto. Intanto da quel giorno il nome di Gerardo incominciò a pesarle gravemente sul cuore. A sbarazzarsi da tanto peso corse il pensiero alla calunnia: ma quale inventare? Il demonio fu pronto a suggerirgliene una atroce, ed essa s’attenne a questa. Era calunnia, inorridisco a dirlo, in materia d’impurità. A dare una veste a tale calunnia concorrevano le circostanze. Nell’ultima sua venuta a Lacedonia, il lettore lo ricordi, Gerardo era stato ospitato in casa del signor Costantino Cappucci, e questi, oltre le figlie incoraggiato dal Servo di Dio a farsi monache, no aveva altre due rimaste in casa, di cui una a nome Nicoletta era di costumi illibatissimi. Non sarebbe dunque credibile, pensava tra sè la calunniatrice, se si dicesse che con questa Gerardo abbia intrecciato illeciti amori? Bisogna però trovare chi lo sapesse senza poterlo propalare, perchè altrimenti il popolo, ancora impressionato dalle recenti meraviglie dal Servo di Dio operate in Lacedonia, avrebbe potuto mettersi in rumore e sventare la trama: e il demonio anche in questo le suggerì il modo da tenersi. Godeva in Lacedonia grande stima un sacerdote di nome Don Benigno Bonaventura. La maligna su lui pose l’occhio e se lo scelse a confessore. Dopo averne a poco a poco guadagnata la fiducia, venne a narrargli il supposto fatto, che essa dava come certo. Gli diceva quali ne fossero stati il tempo, il luogo e le circostanze e come essa stessa l’avesse veduto, ed anche le altre che non potevano parlare. Don Benigno era amico di S. Alfonso, ed aveva molto a cuore che la Congregazione da lui fondata restasse senz’ onta, e progredisse . Per la qual cosa pensò che avrebbe fatto un gran favore all’amico, se l’avesse avvisato del fatto, del quale a lui sembrava non potersi dubitare per le circo stanze con cui la scaltra aveva saputo contornarlo . Oltre di che non sarebbe stato un gran pericolo di scandali, diceva D. Benigno tra se medesimo, se si fosse continuato a mandare in giro quell’uomo, secondo lui ormai caduto, che tutti ritenevano ancora per santo? Dunque, conchiudeva, bisogna scrivere a Don Alfonso . L’impose perciò alla sua penitente e, perchè la lettera di lei trovasse credito, l’accompagnò con una sua ... Satanasso aveva vinto!

124. Lette le due lettere, S. Alfonso restò come colpito da fulmine a ciel sereno!. .. Riavutosi dallo sbalordimento, s’alzò dallo scrittoio, come uomo trafitto nel petto, e, mal reggendogli il passo, con la mano alla fronte, quasi per nasconderla, passeggiava pensoso per la camera, ripetendo ad ogni tratto: Ohimè! ... Gerardo! ... E fia mai possibile ? ... In verità Gerardo, tutti lo dicevano, era un angelo. Quando ancora era in Muro tutti lo chiamavano un angelo. Si narrava di lui che una 18 ore tribolatevolta, mentre era per portarsi in processione una statua della Madonna, egli, come preso da celeste delirio, si facesse strada tra la folla in pubblica cattedrale, e le ponesse un anello in dito, esclamando: Eccomi sposato alla Madonna, e che da quel giorno a qualunque proposta di nozze, a qualunque incontro pericoloso, sempre rispondesse: no, no, chè mi sono sposato alla Madonna. Era stato mandato un giorno da Deliceto a Ciorani, per condurvi due candidati al noviziato. Costretto nel viaggio a pernottare in un’osteria, fu tentato dalla figlia dell’oste che, invaghitasi di lui, gli propose un matrimonio. Egli inorridì a tal proposta, e, respingendo l’inviito, esclamò: io mi sono sposato alla Madonna. Ora poi quest’angelo in carne, posto nel giardino del Signore, tra i gigli che vi fiorivano, stecchito nel rigore delle penitenze, nutrito nelle preghiere e nella contemplazione, spiritualizzato nelle estasi frequenti e molteplici, era caduto! ... e dove? In quella Lacedonia che lo vide servitore del Vescovo andare con tanta modestia negli occhi, con tale innocenza su la fronte, da fare esclamare a chiunque lo guardasse: Gerardiello non è un uomo, ma è un angelo, e caduto appunto allora, che vi operava prodigi di guarigioni e di conversioni! Ecco il pensiero che si combatteva in S.Alfonso con quello delle due lettere, il quale non cessava di martellargli la mente, costringendolo ogni tanto a ripetere: Ohimè ! ... Gerardo ! e fia mai possibile? Ma Gerardo era ancora mortale! Non poteva anche lui essere precipitato dalla cima della sua perfezione, come avvenne ad altri per santità cospicui? Dunque bisognava verificare. E tanto più era necessario di farlo, in quanto che senza smentire la calunniatrice, o senza punire il colpevole, ne sarebbe ridondata una macchia alla sua Congregazione ch’egli voleva illibata. Spedì dunque il più prudente dei Padri, il P. Andrea Villani, e gli ordinò che, andando a fare la visita, come doveva, nel collegio di Deliceto, prima facesse sosta in Lacedonia, e cercasse di chiarir le cose. Giunto in Lacedonia, il P. Villani interrogò la Nérea, e questa sostenne l’accusa; interrogò D. Benigno, e questi disse che le circostanze persuadevano del fatto. Dunque, sia pure che la cosa sembrasse incredibile, il risultato dell’inchiesta portava che Gerardo fosse reo.

125. Saputa questa notizia, S. Alfonso scrisse che subito gli fosse mandato il colpevole. Gerardo, avutone l’intimo, partì dal collegio di Deliceto, dove aveva passati cinque anni e dove non più doveva ritornare. Con la serenità che gli posava su la fronte per la via andava pregando, mentre gli angeli ammirati lo guardavano dal cielo, e S. Alfonso, ripieno d’ansia e di pena, stava aspettandolo nel collegio di Pagani. Appena che vi fu arrivato e S. Alfonso sel vide dinanzi, assunto l’aspetto grave ed abbassati gli occhi, gli notificò l’accusa portata contro di lui. “Restò di gelo, scrive il P. Tannoia, ammutì e non disse parola per sua difesa”. Vedremo la ragione di tanto silenzio; ma questo silenzio concorse a farlo credere reo, e quindi bisognava punirlo. La punizione dovuta sarebbe stata l’espulsione dalla Congregazione: imperocchè il S . Fondatore s’era già protestato che non vi avrebbe mai tollerato colui, che al suo Istituto avesse inflitta una macchia, specialmente se si fosse trattato d’impurità. Ma Gerardo non era un tralcio marcito da dover essere reciso e gittato fuori della vigna del Signore. Perciò quando ognuno avrebbe creduto che, a lui rivolto, il S. Dottore gli avesse detto: Esci dalla Congregazione; si limitò a proibirgli ogni relazione con la gente di fuori, ed a privarlo della santa Comunione. Chi fu che gli frenò le labbra, se non Iddio, che voleva rendere più candido questo giglio con una prova durissima, senza svellerlo dal suo giardino, fin’allora imbalsamato dai suoi profumi?

126. Ed ora volgiamoci al nostro Santo per vedere come sostiene la prova . Non può restare il cuore senza commozione in seguirne il racconto : però il lettore si guardi dal crederlo una fantasia, perchè nella sostanza , tutto è desunto dai testimoni contemporanei e dai processi giuridici, non altrimenti che quelli dei capitoli precedenti. Ascoltata la sentenza con religioso rispetto, Gerardo rimase col volto tranquillo: ma si sentiva aperta nel cuore una ferita profonda. Che fosse stato calunniato, forse l’aveva già dimenticato; che il Superiore fosse stato tratto in inganno, neppur ci pensava; nulla di meglio poteva accadergli che stare lontano dalle relazioni esterne; però la santa Comunione!. .. Ah! la santa Comunione, diceva tra sé come privarsene? Quella sete del pane degli angeli, che gli si era accesa nel petto fin da quando lo ricevette la prima volta per mano di S. Michele, si era resa più acuta . Ricordava le carezze ricevute dal suo caro Gesù Sacramentato, quando dopo averlo accolto nel seno, era da Lui introdotto nei segreti della contemplazione e spesso rapito in un’estasi beata, e quando nei trattenimenti notturni, intrecciava con Lui colloqui amorosi e si chiamvano a vicenda, con istupore degli angeli, che silenziosi adoravano all’intorno pazzi d’amore . Ahi! queste dolcezze, diceva, ora per me sono scomparse! Invero quei giorni, il cielo stesso si mostrava a lui chiuso : ond’ei restava come impietrito e nulla pensando d’essere sotto una prova che l’avrebbe reso più fulgido, cadeva nel profondo del suo rammarico, credendo d’essersi reso indegno della Comunione e perciò ripeteva. : Il Signore vuol punire il mio poco amore e mi fugge! ma io non lo perderò mai dal mio cuore. Questa ferma volontà di non perderlo mai dal cuore lo spingeva a raddoppiare le austerità, a risecare il sonno, già ridotto a poco, ad uscire all’aperto, per contemplare negli astri le grandezze di quel Dio, che non poteva più ricevere sotto le specie eucaristiche, aspettando colà che gli piovesse su l’abbattuto spirito un raggio, a rassicurarlo che il suo Signore ancora l’amasse. E dopo averlo lungamente aspettato invano, col piede vacillante e col capo dimesso andava a porsi dentro la cassa mortuaria del Venerabile P. Cesare Sportelli, passato agli eterni riposi quattr’anni prima, dove le sue membra, stanche dalla lunga veglia, piombavano nel sonno e prendevano breve riposo. Intanto, a vederlo per sì lungo tempo privato della santa Comunione, la comunità di Pagani sospettò che vi fosse stata contro di lui qualche grave accusa: e siccome niuno vi era che si potesse dare a crederlo reo, così tutti gli dicevano che si giustificasse . No, rispondeva, perchè v’è Dio: egli deve pensarci. Non può forse, se vuole, far rilucere la mia innocenza? Nè valeva che altri gli facesse considerare, che bisogna pure aiutarsi, se vogliamo che Dio ci aiuti; perchè fermo, com’era, nella divina volontà, e persuaso che questa fosse altresì nelle afflizioni, rispondeva : Se Dio vuole la mia mortificazione, perchè deggio rimuovermi dalla sua divina volontà? E se è sua volontà farmi chiarire innocente, chi potrà farlo meglio di lui? Faccia dunque lddio, perchè io non voglio se non quello che Dio vuole. Solamente allora rimaneva un poco titubante, quando gli consigliavano di chiedere, almeno per grazia , la santa Comunione; ma poi, subito riscosso dal pensiero che anche in questo è d’uopo rimettersi al divin volere, erompeva dicendo : No, no! si muoia sotto il torchio della volontà di Dio. Nondimeno la privazione della Comunione era sempre la spina che gli pungeva l’animo, e bastava una circostanza qualunque, che gliela richiamasse a memoria, per vedere quanto dolore ne risentisse. Lasciatemi, rispondeva un giorno ad un Padre che l’invitava a servirgli la Messa, lasciatemi, non m’andate tentando, che vi strapperei l’Ostia dalle mani.

127. Dopo alquanti giorni che era rimasto nell’aridità e nella desolazione, sembrò che di tanto in tanto si squarciasse il velo che gli teneva nascosta la presenza del suo Signore. Infatti, interrogato come potesse resistere senza la Comunione, rispose: Me la passo nell’immensità del caro mio Dio: donde c’è dato dedurre che a misura che veniva più purificato nella tribolazione, Dio l’ammettesse alla contemplazione, per pascerlo, come gli angeli, dei suoi attributi divini. Sul cadero del maggio ai ammalò, ed il P. Caione, in qualità di prefetto degl’infermi, andava tutte le sere a far con lui la meditazione in camera sua mentre la comunità orava nel coro. Questi una sera (così racconta il P. Landi) scelse per soggetto della meditazione un capitolo del libro dato alla luce da S. Alfonso intitolato Avvisi ai religiosi, e propriamente quello in cui si parla della carità verso Dio, e del gran merito che ha Dio d’essere amato. E sapendo quanto l’infermo era tirato a questa meditazione, si pose a leggere con enfasi e con vivezza maggiore del solito, ed aggiunse, in mezzo alla meditazione, qualche parola fervorosa incitante all’amore di Dio. Mentre egli leggeva, lo vide con la testa appoggiata al muro, supino e con gli occhi aperti rivolti al cielo, senza punto battere palpebra, e così restare per tutto il tempo che durò l’orazione. Al principio non ritenne ciò come cosa soprannaturale; ma, quando cominciò a far qualche rumore, e vide il fratello starsene sempre immobile, senza riscuotersi e con gli occhi aperti, come impietriti e rivolti in alto, allora s’accorse che trattavasi di un’estasi, e di rapimento in Dio.

128. Questi segni manifesti d’una predilezione divina non bastavano a calmare l’animo di S. Alfonso su l’innocenza di lui. Conciossiachè quelle due lettere gli erano rimaste confitte nella mente, come due chiodi, ribaditi, ciò ch’era peggio, dall’esplorazione fatta dal suo confessore, il P. Villani. Non poteva inoltre persuadersi, come mai Gerardo, essendo innocente, potesse durarla per tanti giorni sotto l’incubo di un’accusa tanto atroce, senza mai discolparsi e senza muoverne con chicchessia il minimo lamento. Questo silenzio così pieno e cupo pesava come un masso sull’animo del S. Dottore , e lo spingeva persino al pensiero, che forse quel traviato fratello si fosse addormentato in una coscienza sacrilega . Quindi a trarlo, com’ei pensava, da sì misero stato venne al partito di mandarlo in una casa dove trovasse Padri di sua maggiore confidenza, e lo mandò a Ciorani, imponendo però al P. Rossi, che vi era Rettore, e al P . Tannoia , che vi teneva l’ufficio di maestro dei novizi, di essere ben oculati a sorvegliarlo. La sorveglianza, scrisse il P. Tannoia, non riuscì a scoprire in lui il minimo neo. Sempre sereno, sempre umile, sempre pronto ad ogni comando; e ciò che più fece stupire, prosegue il detto Padre, non mosse con alcuno neppure un lamento della sua tribolazione, contento di sfogarsi innanzi a Gesù sacramentato.

129.Passati dieci o dodici giorni, fu di nuovo richiamato a Pagani. In questo nuovo soggiorno una cosa merita di essere qui menzionata, per aver fornito al nostro Santo l’occasione di palesare la profonda sua venerazione pel Santissimo. Si doveva portare la santa Comunione nella stanza di un infermo, e perchè la particola consacrata si portava sopra la patena, senza che alcuno se ne avvedesse, cadde per via. Arrivati alla stanza dell’infermo, e non trovandosi la particola, fu grande l’afflizione del Padre che l’aveva portata, come quella di tutti che l’accompagnavano. All’istante tutti uscirono dalla stanza per vedere dov’era caduta. Uscì ancora Gerardo: ma nella vivacità della sua fede, e nello slancio del suo amore per Gesù Sacramentato, a cui da più di un mese non aveva potuto unirsi, si vide come rapito fuori di se stesso, e precorrendo agli altri fratelli, con le braccia aperte, si mise a ricercare il suo Bene sacramentato, e, ritrovatolo, diè segni d’interno giubilo, non senza emettere un sospiro per non poterlo chiudere nel cuore.

130. Questo secondo soggiorno di Gerardo a Pagani fu di brevissima durata. Da Pagani fu mandato alla nostra casa di Materdomini col P. Francesco Giovenale, il quale avendo in quei giorni accompagnato a Pagani il suo Rettore, P. Mazzini, astretto per lo sue infermità
a rinunziare alla sua carica, se ne ritornò a Materdomini a tenervi temporaneamente le veci di superiore. Prima di farli partire, S. Alfonso, o per le buone relazioni ricevute da Ciorani, o piuttosto per qualche lume avuto dal cielo, guardò Gerardo con occhio meno austero e disse al P. Giovenale che gli avesse concessa la Comunione nelle domeniche: però non senza raccomandargli che l’avesse tenuto mortificato e sopratutto gli avesse impedito qualunque relazione con gente estranea.

131. Giunto a Materdomini sul finire di giugno, Gerardo seppe dal superiore interino che nella domenica avrebbe potuto comunicarsi, e con quale letizia del suo cuore, e con quanta compiacenza del Signore ce lo dice il seguente fatto che narra il P. Landi. La sera del sabato chiese al P. Giovenale il permesso di stare in ritiro sino all’ora della Comunione del giorno seguente. Venuta la domenica, egli non aveva più dato segno di sè. L’ora della Comunione s’appressava, e neppure allora appariva. Ma dunque dov’è? si domandavano tra loro quelli della casa. Lo cercano, lo chiamano: non si trova, non risponde. Vedete di qua, vedete di là, diceva il superiore, ma tutti ritornavano dicendo che, dovunque s’andasse, egli non v’era. Sopraggiunto il medico Santorelli, antico amico del collegio, Lo sapete, dottore? gli disse il P. Giovenale, abbiamo perduto fratel Gerardo. E quegli: Avete veduto nella sua stanza? - Non c’è - Sotto il letto?- Neppure - Ma possibile! ci vado io a vedere. Infatti vi andò col fratel Nicola Di Sapio : guardarono in ogni angolo, spiarono sotto il letto: non v’era . .Non importa, disse allora il Santorelli, quando sarà l’ora della Comumione, vedrete che verrà fuori dal nascondiglio. Infatti giunta l’ora della Comunione Gerardo si vide venire pel corridoio. I Padri, là presenti, gli dissero che il superiore l’aveva mandato a cercare da per tutto e stava inquieto per non averlo potuto ritrovare. Corse allora dal superiore, che stava nel cortile, e questi al primo vederlo: Dove sei stalo? - Nella stanza. - Come, nella stanza, se ho mandato a cercarti nella stanza ed altrove, e non hanno potuto ritrovarli! Fa dieci croci con la lingua per terra ( e le fece ). Ti voglio far stare un mese senza la Comunione (e qui impallidì) ed un mese col digiuno in pane ed acqua. - Padre mio, fammelo fare per amore di Gesù Cristo. -Ma io voglio sapere dove sei stato. - Ecco, io chiesi a Vostra Riverenza il permesso di rimanermene riconcentrato con Dio nella stanza, e perchè potessi meglio conseguirlo, domandai al mio buon Gesù che mi rendesse invisibile per non essere turbato, ed egli esaudì. Allora il P. Giovenale riprese a dire che per questa volta lo perdonava, ma che non facesse salvataggiopiù siffatte preghiere, perchè egli non avrebbe più voluto sentire di tali misteri. Ricevuta la Comunione e fatto il ringraziamento, il nostro Santo s’incontrò col Santorelli e tutto pieno di giubilo gli disse: Dottore, sapete? ho ricevuto la santa Comunione. Quegli, trattolo in disparte, l’interrogò: Gerardo, dimmi la verità, tu dove sei stato? Dici d’essere stato nella stanza: ma Dio ti faccia santo! Io e fratel Nicola l’ abbiamo rovistata in ogni punto e non ti abbiamo trovato. Egli lo prese per mano e, menatolo alla stanza, gli mostrò una seggioletta accanto alla porta, a cui diceva d’essere stato appoggiato, pregando, e poichè quegli insisteva, dicendo d’aver anche là guardato e di non averlo veduto: Non m’avete veduto, ei rispose, perchè certe volte mi faccio piccolo piccolo. “Di questo miracolo, disse il sacerdote Michele Santorelli nel processo ordinario, si sparse tanta fama in Caposele, e lasciò nei ragazzi tanta impressione, che giocando coi compagni a covarella, in cui l’uno si nasconde e gli altri devono trovarlo, erano soliti dite: Facciamo fratel Gerardo”.

132. Tutti questi segni: cioè l’estasi di Pagani, la prova che di se stesso fece a Ciorani, e quest’ultimo miracolo di Materdomini, erano come tanti barlumi, che dopo una notte lunga e tempestosa appariscono dalle nubi squarciate e fanno sperare una luce serena . Ma venne anche il giorno e l’innocenza di Gerardo apparve nel pieno splendore. Nella fine di giugno S. Alfonso ebbe una lettera che diceva essere stata l’accusa un tessuto di calunnie e solamente fatta ad istigazione del demonio. Questa lettera era di Nérea, la calunniatrice, la quale caduta malata e, temendo il giudizio di Dio, rivelò al confessore la sua malizia, e questi la costrinse a smentirsi, come doveva. Deo gratias! esclamarono tutte le case della Congregazione quando lo seppero. Chi fu che restò impassibile in mezzo al comune tripudio? Un solo: Gerardo! “Se abbattuto non fu vedendosi calunniato, neppure andò gonfio vedendosi giustificato” dice il Tannoia. Però alzò gli occhi al cielo e baciò le mani della Divina Provvidenza: mani, egli diceva, che spargono su di me le gemme preziose del divin volere.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021