San Gerardo Maiella
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Sotto il torchio delle divina volontà

Capitolo XXVIII

Mentre la tempesta esterna si andava addensando sul capo di Gerardo, un'altra tempesta più violenta si agitava da mesi nella sua anima, attirata e insieme respinta da Dio. Dio usa spesso frugare i suoi eletti con una luce talmente vivace da dar loro l'impressione netta e distinta di vedersi davanti, ingigantite, tutte le colpe commesse da quando sono nel mondo, anche quelle che sfuggono all'occhio più esercitato della coscienza. Ci vuole un'assistenza superiore per non morirne di terrore.

Era guanto avveniva nel nostro santo. Egli, che aveva conservata intatta l'innocenza battesimale, si vedeva brulicare nell'interno una infinità di peccati che stendevano tra sé e Dio un nero diaframma di colpe. Lo rivelò in una lettera alla madre Maria di Gesù: « Io mi ritrovo pieno di peccati, pregate Dio che mi perdoni. Tutti si convertono ed io sto ostinato: abbiate pazienza di disciplinarvi per me, acciò sua Divina Maestà mi perdoni e mi accolga». (o. c., pag. 34).

La lettera è dei primi mesi del '53. Da allora era stato un crescendo continuo di angustie e di lacerazioni interiori che raggiunsero vette spaventose proprio nella Pasqua del '54 alla vigilia della calunnia. Abbiamo, in proposito, la testimonianza autorevole del canonico don Camillo Bozio, di Caposele, che divenne amicissimo del santo in seguito ad una prova alla quale aveva voluto sottoporlo.

Il canonico, avendo sentito lodare fratel Gerardo da un uomo riservato come il padre Cafaro, aveva desiderato di conoscerlo per veder se la fama corrispondesse alla virtù. L'occasione gli si presentò nel marzo del 1754, mentre predicava il quaresimale ad Atella.

Lo vide una mattina in sagrestia, circondato da sacerdoti e gentiluomini che bevevano avidamente le sue parole. Si fece avanti e lo sentì parlar di perfezione e gloria di Dio. Preso da un moto di dispetto, gli spezzò la parola in bocca con fare sprezzante : « Ma che vai parlando di perfezione e di gloria di Dio, tu che non sai nemmeno leggere e scrivere ? Va là, scioccone ; smettila di far da maestro ! ... Ma non mi meraviglio di te; mi meraviglio di questi signori che stanno a sentire i tuoi spropositi! ».

Gerardo ammutolì, poi, in un impeto di gioia, lo abbracciò dicendo : « Grazie ; avete ragione! ».

Don Camillo era vinto. Da quel momento gli divenne ammiratore ed amico, ed, essendo molto versato nella teologia mistica, cominciò a studiarlo intimamente. Fu sorpreso di scorgere, sotto quella superficie di serena giovialità, le fitte acute di un dolore misterioso che non trovava spiegazione plausibile nelle cause naturali. « Mi accorsi » scrisse in una sua annotazione, « che pativa movimenti soprannaturali ».

Pativa : il soprannaturale gli era divenuto un premio e una prova. Forse più una prova che un premio, perché, acuendo progressivamente il bisogno di congiungersi con Dio e il sentimento della propria indegnità, scavava più profondo il solco del suo dissidio interiore.

Il dissidio era scoperto e il sacerdote lo intuì quasi subito. Trattolo perciò in disparte, gli chiese se quella mattina si fosse comunicato. La risposta fu negativa : quella mattina tra lui e Gesù era sorto un ostacolo : quello dei propri peccati. L'umile confessione spalancava la porta a numerosi quesiti che avrebbero richiesto maggiore opportunità di tempo e di luogo. Decisero, dunque, di rivedersi nel pomeriggio in casa del sacerdote. Il santo vi andò, ma non fu in grado di parlare, perché « la fame del Pane Eucaristico, acchetata al mattino dal sentimento della propria bassezza, erasi posta in moto e gli cagionava nello spirito ardentissimi slanci verso il Sacramentato Signore ».

Allora il sacerdote lo invitò ad uscire all'aperto, sperando che il paesaggio potesse distrarlo alquanto dai suoi pensieri. Gli faceva osservare ogni cosa : i campi arati, le colline solatie, le montagne sfumate nella nebbia, i pastori ritti sulle gregge, i frulli d'ali invisibili tra gli alberi fronzuti. L'altro assentiva con la testa, ma era triste e lontano. Si sforzava di sorridere, ma il riso gli moriva sulle labbra che modulavano di tanto in tanto alcuni versetti delle lamentazioni di Geremia.

Non restava loro che tornare indietro e dirigersi nella collegiata.

Era vuota; dalle rade finestre penetrava una luce attenuata che levitava perfino i rozzi pilastri e le basse navate. Salirono in cantoria. Gerardo toccò l'organo e insieme cantarono la canzoncina di Sant'Alfonso che comincia: « Fiori, felici voi che notte e giorno Vicino al mio Gesù sempre ne state...».

La voce del santo saliva a Dio dal profondo della propria rovina, come il gemito di uno schiavo in attesa della liberazione. Era un gemito che non trovava sfogo nel colloquio cogli uomini, ma solo in uno sguardo muto verso il cielo lontano.

Il canonico finalmente comprese e tacque.

Da Atella, Gerardo si portò a Foggia. La prova interiore diede alla visita una nota di velata malinconia che si accompagnava ai lugubri canti della settimana santa. A quanto si racconta, prima di separarsi da quelle suore che non avrebbe più riviste sulla terra, levandosi il Crocifisso dal petto, lo consegnò, come ricordo, alla madre Crostarosa. Ai piedi vi aveva scritto: « O legno, che sopra ogni altro legno - di portare il Figlio di Dio sei stato degno! ».

Erano già in programma altri ritorni, e anche a breve scadenza eppure il commiato ebbe la tristezza dell'addio. Non era questo il presentimento della tempesta esterna ormai vicina ?

Passò la Pasqua, passarono i giorni trionfali dell'Alleluia e nessun raggio di sole venne a rallegrar l'anima del santo, sempre serena all'esterno, ma sempre più macinata dalla prova interiore.

Si trovava, dunque, in tale stato quando gli fu comunicato dal padre Fiocchi l'ordine di partenza. Senza fiatare, piegò a terra il ginocchio, gli baciò la mano e uscì, tranquillo come sempre.

Già si preparava al viaggio, quando gli giunse una lettera da Caposele. Era del sacerdote don Gaetano Santorelli, conosciuto dieci mesi prima, durante il ritorno da Castelgrande. Glielo aveva presentato il dottor don Nicola, suo fratello, discepolo anche lui del padre Cafaro, perché calmasse le ansietà della sua coscienza. Don Gaetano era, infatti, un tipo irrequieto e scrupoloso, specialmente al tribunale di penitenza. Inoltre era premuto da un complesso d'inferiorità che comprometteva il suo apostolato. Gerardo con un direttorio spirituale gli aveva ridato calma e fiducia, ma la bonaccia non era durata a lungo e il passato aveva avuto il sopravvento. Perciò il sacerdote si proponeva di recarsi a Deliceto per abboccarsi con lui : lo avrebbe accompagnato il fratello don Nicola che, dopo l'incontro di Caposele, gli si era legato con la più cordiale amicizia.

Gerardo rispose immediatamente con una lettera che riflette l'occhio sicuro dei forti e il cuore fiducioso dei santi : qualità tanto più apprezzabili, in quanto precedono uno di quei colpi mortali che spezzano un'esistenza, o la sublimano per l'eternità. Egli intuisce che con certi malati ci vuole decisione e affetto, specialmente decisione. Perciò non discute: comanda: «Sentite a me: e sentite con somma attenzione ciò che vi dico ; ve lo dico da parte di tutta la mira SS. Trinità, e di mamma Maria Santissima. Fate che questa sia l'ultima risposta che avete da me ... le vostre angustie e dubbi son tutti arte del nemico infernale, il quale vuol farvi perdere la bella pace di coscienza ... discacciateli come vera tentazione ... ».

« Circa il Regolamento, V. Riverenza si serva di quello che io vi feci e non altro ... ». Gli raccomanda soprattutto di non sottrarsi al dovere del confessionale per quanti scrupoli e tentazioni possa averne: « è una gran tentazione (questa) per farvi lasciare l'impiego di Dio, che vi fu destinato - ab aeterno - per vostro sommo profitto spirituale ... vi dico da parte di Dio : non acconsentite mai a tal tentazione ... sarebbe la vostra rovina ... nella vita spirituale, e ... Dio non vi darebbe il gran premio futuro ... è volontà di Dio che v'impieghiate con sommo zelo nella vigna del mio Signore e non dubitate di ciò che vi suole accadere nella confessione : asta che la volontà sia ferma a non volere offendere Dio, e per il resto non importa ».

« Circa la dottrina, Dio ve ne ha data tanta quanta ve ne bisogna per il vostro impiego ». In ultimo, si scusa di non poterlo attendere a Deliceto, « perché sto per partire per Pagani, come mi dice il Superiore ».

Non aggiunge altro su un affare tanto spinoso. Reticenza? Non crediamo : il santo è all'oscuro di tutto. Sa che deve mettersi in viaggio, e sa la meta del viaggio: il resto è nelle mani del superiore e non si cura di saperlo.

La lettera si chiude con un accenno fugace alla prova interiore « Vi prego di pregar sempre Dio per me, perché ne ho molto bisogno. Benedetta sia sempre la divina bontà che sopporta tante mie miserie ! » (o. c., pag. 65).

Queste ultime parole erano una lacrima silenziosa che scendeva sui luoghi dove aveva tanto amato e sofferto; sui luoghi che erano stati i testimoni delle sue elevazioni spirituali e del suo apostolato fecondo, stroncato dalle forze del male.

Qualche giorno dopo, era a Pagani, alla presenza del fondatore che lo attendeva in veste di giudice implacabile e severo. Sant'Alfonso era uno di quegli uomini che sanno perseguire soltanto un'idea e subordinano ad essa tutta la loro esistenza. Sacerdote, missionario, fondatore, scienziato, apologista, poeta, egli raccoglieva le sue energie esuberanti attorno a un centro focale : lo zelo per la salvezza delle anime. è questa l'ossatura che sorregge la sua personalità poliedrica e le dà un'impronta nella storia. La Chiesa ha colto giusto, denominandolo: « Dottore zelantissimo ». Perché lo zelo fu la passione che illuminò la sua intelligenza e infiammò la sua parola di apostolo e di forgiatore di apostoli educati alla scuola del Maestro divino, di cui dovevano riprodurre in se stessi la vita. Guai a chi defletteva da questo ideale, specialmente per l'innocenza dei costumi! Il mite, il buon don Alfonso diveniva allora un giudice inesorabile, rigido e fiero nel volto, sferzante nella voce, terribile nelle sanzioni. Non esitava ad usare il ferro del chirurgo per amputare dall'Istituto un membro infetto.

Con Gerardo, invece, non credette necessario di ricorrere a rimedi estremi nè di minacciarli. Quindi, tutto lascia supporre che non avesse data soverchia importanza alle accuse: l'innocenza del santo e quella della Nicoletta Cappucci erano fuori discussione. Restava, ci dice il padre Caione, qualche sospetto. Probabilmente di indole generale : che l'imputato non avesse usato sempre tutte le regole di prudenza; che la sua condotta si fosse prestata a interpretazioni maligne; che il suo cuore, riboccante di affetto, avesse potuto attaccarsi, magari a fin di bene, a qualche creatura; che il chiasso soverchio, suscitato dal suo apostolato, avesse finito per falsare o deviare la sua coscienza, depositandovi qualche seme di orgoglio.

Ecco perché Sant'Alfonso « con tutto che non avesse dato credito alle imposture, nondimeno», come ci assicura il padre Caione, «volle provare la spiritualità del Fratello» con le umiliazioni e i castighi. Il saperlo privilegiato da Dio era un motivo di più per gravar la mano, memore del principio generale, espresso in un'altra occasione alla madre Maria di Gesù : « che le anime favorite bisogna umiliarle e tenerle sotto terra, acciò non cadano in superbia». (Lettere, I, pag. 212).

Gerardo entrò nella stanza del suo Superiore Maggiore con l'anima composta alla riverenza e dilatata dall'affetto, ma si trovò davanti due occhi freddi e indagatori che lo fissavano da sotto l'ampia fronte corrucciata. Ebbe un brivido premonitore e appena sentì le prime parole cupe e minacciose, cadde in ginocchio e curvò il capo sotto il peso della condanna divina che gli giungeva per mezzo del suo rappresentante. Come da piccolo nella sartoria Pannuto, come da grande davanti al guardiano del duca di Bovino, egli poteva ripetere, se non con la voce, almeno col cuore: « Batti, ché hai ragione è Dio che mi batte!».

E a testa china, con le labbra ermeticamente sigillate, senza una parola, un gemito, un sospiro, ascoltò impassibile la tremenda requisitoria e impassibile ascoltò la sua condanna.

Parlare ? Giustificarsi ? No, egli aveva formulato da molto tempo, insieme con gli altri, due propositi che poi, su invito del superiore, metterà per iscritto: « Non risponderò mai a chi mi riprende, se non domandato».

« Non mi scuserò, ancorché abbia ragione, purché in quello che mi vien detto, non vi sia offesa di Dio e pregiudizio del prossimo ». In questi due propositi, c'è il segreto del suo silenzio. Egli non vide nell'accusa la trama ordita ai suoi danni dalle piccole creature della terra. Le creature erano scomparse : appariva solo la maestà del sovrano Giudice che rimproverava le sue negligenze, le sue ingratitudini, i suoi peccati, calcandogli sulla nuca quella mano pesante che lo piegava verso la polvere.

Perciò, quando la parola del superiore cessò di martellare al suo orecchio, egli ebbe la prova decisiva di essere un riprovato da Dio e dagli uomini. Da Dio che non avrebbe più ricevuto nella santa comunione ; dagli uomini da cui sarebbe vissuto lontano. Erano questi gli ordini categorici ed egli li accettava con umile rassegnazione, nonostante la ripugnanza del cuore che avrebbe voluto nutrirsi sempre di Dio. Chi lo vide uscire da quella stanza, avrebbe potuto giurare che uscisse da uno dei soliti colloqui paterni tra superiore e sudditi: tanto era calmo e sereno, tanto gioviale nel volto. Nessuno sapeva cosa passasse nel suo spirito nelle ore di solitudine, specialmente quando la notte gli dava la sensazione esatta del suo stato interiore. Allora saliva nella soffitta e si disciplinava aspramente; poi scendeva nel chiostro, fermandosi immobile a rimirare quella breve calotta di cielo stellato che s'inarcava su di lui, povero insetto della terra, investito dal mistero sempre più tangibile della grandezza di Dio. Quando le forze gli venivano meno, tornava nella sua cara soffitta, cercava a tastoni una vecchia cassa da morto, servita per l'ultimo riposo del venerabile padre Cesare Sportelli e vi si calava per qualche ora di sonno.

Alcuni padri lo invitavano di tanto in tanto a servir la messa « Non mi andate tentando», rispondeva, tra la celia e l'amarezza, « vi strapperei Gesù dalle mani! ».

Così ogni giorno, sempre sbattuto tra i richiami dell'amore e la repulsione del peccato, tra l'estasi e lo sgomento.

Una mattina accompagnava il sacerdote che portava la comu-nione ad un infermo. La portava sulla patena, velata dalla palla, ma giunto sul posto, si accorse che la patena era vuota. Un momento di sorpresa, poi tutti si misero alla ricerca. Gerardo correva avanti con le braccia spalancate e gli occhi luccicanti. « Eccola ! » gridò a un tratto e cadde a terra, adorando. Quale sforzo per non portarla alla bocca!

Tali alternative, tali macerazioni, tali insonnie produssero il loro effetto : verso la fine di maggio, il santo, assalito da una febbre violenta, fu costretto a mettersi a letto. La malattia lo rivelò ai confratelli e allo stesso Rettor Maggiore.

Una sera, infatti, il padre Gaspare Caione si portò a leggergli la meditazione. Aveva scelto per argomento un paragrafo del « Libretto degli avvisi spettanti alla vocazione religiosa», scritto dal fondatore, e precisamente quello intitolato: « Dell'amore che dobbiamo a Gesù, in ricompensa dell'amore ch'Egli ci ha dimostrato». Leggeva con enfasi, calcando la voce sulle parole più espressive e pausando le frasi con una certa solennità. Arrivato in fondo alla pagina, alzò gli occhi sull'infermo. Lo vide nella stessa posizione di prima, gli occhi aperti verso il cielo. Non batteva palpebra, non moveva il respiro. Passò una buona mezz'ora. Finalmente il Padre cominciò a muoversi, a stropicciare i piedi sul pavimento, a spostare qualche sedia, a chiamarlo. Invano. Gli occhi erano sempre dilatati, impietriti verso il cielo. Allora comprese : era in estasi.

A questa prima rivelazione ne seguì una seconda di cui fu spet-tatore lo stesso S. Alfonso. Questi, una mattina, trovandosi a refettorio, andò col pensiero a quel benedetto Fratello che gli restava sempre un enimma. A un certo punto, ebbe desiderio d'interrogarlo, ma fu un desiderio passeggiero. Stava infatti pensando ad altro, quando se lo vide davanti, avvolto in un lenzuolo. Sorpreso, gli domandò che andasse facendo in quella strana maniera.

Ed egli: « Vostra Paternità mi ha chiamato».

Si rividero un'altra mattina, nel corridoio ; Sant'Alfonso veniva avanti col suo passo misurato e l'altro era ad attenderlo nel vano d'una finestra, guardandolo con due occhi luminosi. Quando furono vicini, Gerardo esclamò : « Padre mio, voi avete la faccia di un angelo! Quando vedo voi, mi sento consolare! ».

Anche questa volta Sant'Alfonso rimase impassibile. Forse pensò che il Fratello agisse per calcolo, essendo sotto lo sguardo diretto del Rettor Maggiore e di Padri che poteva considerare suoi emissari. E cambiò tattica. Lo inviò a Ciorani, con l'ordine di dargli maggior libertà di movimenti e di studiarne accuratamente la condotta. Furono incaricati della sorveglianza i padri Rossi e Tannoia : il primo, rettore della casa ; il secondo, maestro dei novizi.

Il padre Rossi si mise all'opera. Un giorno gli disse: « Portami questa lettera a Castellammare. Prenditi il cavallo ».

Gerardo prese il cavallo per le briglie e l'uno avanti, l'altro appresso, proseguirono fino a Castellammare.

La sera, al ritorno, il Rettore, vedendolo con le ossa rotte, gli chiese: « Ma come ? Non sei andato a cavallo ? ».

E lui: « No, non ne avevo l'ordine».

Il fatto non mancò di fare impressione, ma l'impressione maggiore la produsse il suo atteggiamento sereno, gioviale : mai uno sfogo, mai un risentimento, nonostante le astuzie dei confratelli per carpirgli qualche segreto, qualche nota di stanchezza o di malumore. Qualcuno lasciava cadere una parola di censura verso i superiori : ed egli ne prendeva le difese. Qualcuno lo compativa per la privazione della comunione: ed egli rispondeva: « Mi basta di aver Gesù nel cuore». Oppure: « Me la spasso nell'immensità del mio caro Dio! ». Un altro, durante la ricreazione, lo consigliò di rivolgersi direttamente al Rettor Maggiore per ottenere la comunione. Gerardo restò un momento sospeso ; poi, dando un gran pugno sul muretto al quale era appoggiato: «No», disse, «si muoia sotto il torchio della volontà del mio caro Dio! ». Dopo una decina di giorni, fu rispedito a Pagani con gli attestati più lusinghieri, i quali però non riuscirono a tranquillizzare completamente il fondatore.

Chi invece subito comprese di che si trattava, fu la madre Celeste Crostarosa che aveva conosciuto personalmente la Caggiano ed era in relazione con la famiglia Cappucci di cui educava le figliuole. Perciò si affrettò a scrivere all'eroico religioso: « Abbiamo saputo la causa dei vostri travagli. Voi sempre per fare la carità, vi trovate nei guai. Fra tutto (il diavolo) questa volta ha faticato per non farvi venire a Foggia. Sia fatta la volontà di Dio! Noi però abbiamo sempre pregato per voi e spero che lui abbia da restare confuso. Vediamoci in Dio ove stiamo e viviamo, ed uniti amiamo quell'unico nostro Bene Gesù che tanto ci ama ».

Col suo intuito femminile, la Madre aveva compreso la vera colpa di Gerardo : « Voi sempre per fare la carità vi trovate nei guai!». La sua colpa era, dunque, un'eccessiva carità che non poteva contenersi nei limiti fissati dalla prudenza degli uomini. E questa carità aveva giocato molto spesso - la Madre dice: «sempre!» - dei brutti tiri al nostro santo che dovè lottare con la malizia dei suoi beneficati. Ma niente era valso a frenare lo slancio del suo cuore, regolato solo dal ritmo inesauribile della carità verso Dio.

Un'altra lettera la ricevette dal padre Margotta, importante anch'essa, perché ci aiuta a comprendere le sue disposizioni di spirito durante la prova: « Io che vi bramo ogni bene e vantaggi sempre più grandi nel divino servizio, vi confermo in questa buona volontà in cui siete di voler fare l'ubbidienza e vivere solo per fare la divina volontà, obbedendo perfettamente ai Superiori ... ».

Anche ora i suoi propositi erano rimasti immutati.

Intanto, visto che le cose andavano per le lunghe senza che nessun elemento nuovo venisse a chiarire la sorte del povero condannato, Sant'Alfonso pensò d'inviarlo a Caposele, affidandolo direttamente all'occhio sperimentato del padre Giovenale, già ministro di quella casa ed ora superiore interino, in seguito alla rinunzia del padre Mazzini, avvenuta per motivi di salute. Il padre Giovenale aveva accompagnato a Pagani l'ex-rettore infermo e si accingeva a tornare in sede. Prima di ripartire, ebbe in consegna il povero Fratello con questa parola d'ordine: « Mortificarlo, mortificarlo sempre e dovunque e proibirgli qualunque rapporto con estranei. Poteva permettergli la comunione domenicale».

Durezza? Incomprensione? Bisogna aver la forza morale dei santi per comprendere la gravità anche di una colpa che noi chiamiamo leggiera e la necessità dell'espiazione come mezzo redentivo dal male.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021