San Gerardo Maiella
A+ A A-

L'ora decisiva

Capitolo VII

Noi misuriamo gli altri col nostro metro; noi, i piccoli, gli inetti, gli accomodanti, pretendiamo di essere la norma, cioè l'unità di misura e chi se ne diparte diventa, per ciò stesso, un anormale. In altri termini, un pazzo. Come se si potessero mettere sullo stesso piano i reclusi nelle case di salute, capaci solo di nuocere a sé e agli altri, e quegli esseri superiori che passano come una benedizione sulla terra, asciugando lacrime, consolando dolori, e sopravvivono alla loro morte nella venerazione dei popoli. Eppure c'è qualche cosa che dovrebbe arrestare i nostri giudizi frettolosi: la gioia spirituale con cui queste anime si muovono verso i loro ideali di sofferenza e di martirio. Tale gioia è il frutto più squisito dello Spirito Santo che ha preso possesso di loro. E' la storia di tutti i santi ed è la storia del nostro Gerardo.

Dopo le prove del carnevale, egli iniziò con nuovi propositi la quaresima del 1747, adattando la cornice esterna della vita alla severità della liturgia: meno chiasso, più concentrazione interiore. Raddoppiò le flagellazioni, ma nel silenzio della chiesa, o della campagna boscosa ; il suo petto divenne tutto un aspro prurito di chiodi appuntiti; il cibo lo ridusse a un paio d'once di pane, condito con radiche amare, passando la sua razione ai fanciulli abbandonati, o ai poveri che incontrava per via. Alle volte protraeva il digiuno per giorni e giorni, rispondendo alle insistenze della mamma: « Non preoccuparti; non ho fame; son sazio fino alla gola ! » ed altre espressioni simili.

Una volta Benedetta si lamentò con Eugenia Pascale che suo figlio non toccava cibo da tre giorni. Costei, che godeva di un certo ascendente sul santo di cui era coetanea, per sincerarsene, lo invitò a casa e gli offrì da mangiare: «Non ho fame! », rispose, accovacciandosi sullo sgabello accanto al fuoco. La giovane lo squadrò da capo a piedi e « Che hai qui ? », gli disse toccando una tasca rigonfia. « Niente, niente; è la provvista».

Incuriosita, cacciò dentro quasi a forza la mano e ne cavò fuori un pugno di radici risecchite : « E queste a che servono ? ». .

« Queste ? ... si mangiano e levano l'appetito ».

La donna ne portò un frammento in bocca, ma dovette risputarlo in fretta ; se no, vomitava.

Quando era costretto a cedere all'importunità degli amici, si faceva preparare un involtino che poi finiva regolarmente nelle mani dei poveri.

Eppure quel poco cibo doveva sostenere un giovane di venti anni, in piedi prima ancora dell'alba, quando usciva di casa, imboccando le ultime rampe della Raia del Castello.

Nelle tenebre, l'alta torre boreale prendeva l'aspetto di un fantasma che vegliava sul baratro del Ponte delle Ripe ; più avanti il secondo torreone torvo e massiccio pareva grondasse sangue. Si diceva infatti che dalle pietre uscissero i gemiti delle vittime trucidate in quegli oscuri recessi. Qualcuno giurava perfino di aver visto uscire dal triste maniero, nelle notti illuni, la regina Giovanna : a bisdosso di un mulo, il tronco inerte e la testa ciondolante, scendeva lentamente verso il baratro, al suono delle acque che rotolavano negli abissi.

A quei ricordi, Gerardo affrettava il passo, raggiungeva la piazzetta deserta, ed estratta la chiave avuta la sera precedente dall'abate Tirico, spariva nella cattedrale. Qui l'oscurità era rotta dal fiato di luce che vegliava sull'altare, dal quale si affacciavano i santi, mezzo sepolti nel buio. Tra i candelieri traballanti s'intuiva la grossa sagoma dei due angioloni di legno, genuflessi, a mani giunte. Ai loro piedi prendeva posto Gerardo: genufletteva anche lui e congiungeva le mani, in adorazione. Si sarebbe detto un terzo angelo disceso dal cielo, senza quel respiro affannoso che tradiva l'irruenza del sentimento. Pregava a lungo, solo con Dio; poi si ritirava in un canto, si scopriva le spalle e cominciava la carneficina a colpi di corda. Quando era esausto, si riaccostava all'altare e procedeva a meditare le altre stazioni dell'orologio doloroso tralasciate nel sonno. Quando poi l'aurora saliva dalle vetrate sudice, apriva la porta, suonava le campane e cominciava a servire le prime messe per prepararsi alla santa comunione ; le altre, per ringraziare il Signore. Il ringraziamento lo prolungava fino a sera, nella santità del lavoro. Lo conchiudeva con la benedizione eucaristica, seguita da lunghe preghiere, interrotte solo dal sacrista, che sbattendo la grossa chiave sulla porta, dava il segno di uscire. Allora rincasava lentamente bisbigliando l'ultima preghiera per il vicolo buio, al chiarore delle lucerne, per riprendere la stessa via prima dell'alba, al chiarore delle stelle.

Tale genere di vita non poteva piacere al maligno che ricorse a tutti i sistemi per stroncarlo definitivamente.

Una notte, appena Gerardo aprì la cattedrale, sentì venirsi addosso, ringhiando, un ammasso di peli: davanti, due occhi accesi sulle grosse zanne biancicanti nel buio. Arretrò di un passo col cuore in gola ; poi : « Ah sei tu ! » gli gridò in tono di scherno e con un segno di croce lo ricacciò nelle tenebre. Ma il demonio tornò alla carica.

Gerardo si era appena accomodato al solito posto e cominciava a pregare, quando, all'improvviso, udì uno schianto, poi un angiolone rotolò dall'altare, sfiorandogli il braccio. Sarà caduto per terra ? No, ecco riprende quota, sfreccia nell'aria come un bolide, traccia una curva e gli ripiomba addosso con tutto il corpo piegato sulle ginocchia e le ali confitte nel buio. Il santo balza da un lato, ma si vede ancora inseguito. Allora finalmente comprende: il cuore getta un grido, la mano traccia una croce e il maligno è sconfitto la seconda volta.

Ma quale spavento! Se ne ricorderà per tutta la vita. Dieci mesi prima di morire, in una sera d'inverno, ne farà il racconto particolareggiato alla comunità raccolta intorno al fuoco, mentre il vento passava fischiando per la valle del Sele coperta di neve. Tutti lo guardavano tra l'attonito e il divertito e qualcuno tremava impaurito, come se l'angiolone volasse ancora sulle ali del vento e fosse lì fuori a forzare le imposte.

E venne la primavera e, con le prime gemme, una nuova idea scoppiò improvvisa nell'anima del santo: farsi eremita. Sfumata ormai la speranza di portare il cordone di San Francesco, non gli restava che darsi ai monti come gli antichi anacoreti, sotto gli alberi, muti testimoni dell'Altissimo, cibandosi di frutta selvatiche come gli animali della terra e gli uccelli del cielo. Così niente l'avrebbe distratto dalla preghiera, né il sole nascente, né le stelle della notte. E tutta la natura avrebbe accompagnato le sue contemplazioni col sospiro della brezza e il turbine della tempesta. Ci pensò a lungo e si decise.

Allora la professione di eremita non era rara come adesso : se ne trovavano ai margini dei boschi che lambivano la città, come quell'Antonio Marolda, soprannominato l'abate Tonno, che fondò la chiesetta suburbana di San Giuseppe, nel casale di San Giuliano e vi ottenne il diritto di sepoltura da mons. Delfico nel 1734. L'idea dunque non era nuova, ma era nuovo il modo di attuarla. Un modo davvero originale che Gerardo espose a un compagno, animato dagli stessi propositi. Si trattava di un regolamento appena abbozzato, un semplice schema, suddiviso in distinti paragrafi: preghiera, penitenza, lavoro, sonno. La maggiore importanza veniva data ai primi due punti; poi, in ordine decrescente, agli altri due. Un punto assolutamente trascurato era quello del cibo : sarebbe bastata la cicoria dei prati e l'acqua viva dei torrenti. Esclusa assolutamente la carne.

Erano sogni utopistici e i due giovani dovettero intuirlo se, prima di accingersi all'impresa, vollero saggiare le loro forze con otto o dieci giorni di prova per ogni singolo punto. Si diedero al raccoglimento continuo, alla preghiera assidua, alle carneficine spietate. E giunsero al punto relativo ai digiuni a base d'erbe crude, portandolo avanti bravamente fino al terzo o quarto giorno, quando si videro spiati dagli occhi curiosi e dalle domande indiscrete dei conoscenti. Che è, che non è, si accorsero finalmente che, a forza di mangiare erba cruda come i buoi, le loro labbra avevano preso un colore verdognolo che acquistava maggior risalto sul pallore spento delle guance. Naturalmente il segreto fu scoperto e il progetto cadde sotto il peso dei sarcasmi e delle irrisioni.

Gerardo riaprì ancora una volta il negozio e riprese a servire la sua clientela, la quale, dobbiamo riconoscerlo, doveva volergli un gran bene se, nonostante tutto, continuava a restargli fedele. Perché il signor « Fate voi » faceva onore al proprio nome, procrastinando continuamente la consegna dei lavori senza preoccuparsi troppo dei reclami che gli si levavano contro da ogni parte. Anche dagli amici che avevano finito per giudicarlo un sognatore buono a nulla. Così, a ventidue anni, cominciò a sentirsi straniero tra i suoi concittadini, chiuso nelle proprie contemplazioni, completamente assente, anche tra lo strepito delle feste. Si racconta a questo proposito un episodio quanto mai significativo.

Un giorno fu invitato a partecipare alla fiera di San Quirico, la grande solennità cittadina che per dieci giorni metteva in subbuglio quella popolazione sonnacchiosa. La fiera si apriva dal mastro giurato che si re duto dalla bai seguito dal Sii persone di ogi pimento del giurato che si recava al mercato « con gran pompa e solennità, preceduto dalla bandiera del Comune, da suonatori di pifferi e tamburi e seguito dal Sindaco, dagli eletti, dalle Guardie e da lungo codazzo di persone di ogni ceto e condizione sociale... Era il più grande avvenimento del paese, il sospiro di tutti... ».

Gerardo si aggirava tra quelle piramidi di ceste, di fiaschi e barili, di selle e ferri vecchi; tra quelle baracche di ninnoli e gioielli a buon mercato e giunse in uno spiazzo dove un santaro aveva esposto, su alcune tavole posticce, lunghe file di statue e statuette in gesso e cartapesta che spiccavano sotto il sole di luglio per la foga dei loro gesti e lo strazio dei loro colori. Il santaro gridava ai quattro venti le virtù taumaturgiche di ogni santo e Gerardo si fermò ad osservare attentamente quelle figure tanto care al suo cuore, quand'ecco i suoi occhi caddero su un San Michele che dominava in prima fila con le ali spiegate e la spada in pugno. Non ci volle altro. Di schianto si lasciò andare in ginocchio, tracciandosi segni di croce sulla fronte e picchiandosi con impeto il petto : poi si ricompose nella calma della preghiera silenziosa. D'intorno, nell'aria arroventata di luglio, si rimescolavano nitriti di cavalli, muggiti di buoi, rulli di tamburi, grida di venditori, ronzio di mosche e tanfo indescrivibile, ma Gerardo non vedeva, non udiva più nulla. Era in Dio.

Lo stesso gli capitava tra le pareti del negozio, anche alla presenza degli avventori che attendevano la consegna del lavoro o una risposta. Ormai la contemplazione era diventata la forma abituale della sua preghiera e della sua vita e il lavoro, il mondo stesso, una appendice trascurabile della sua esigenza di cielo.

Con tali disposizioni anelava a farla finita col mondo. Spesso tra una gugliata e l'altra veniva rapito da forti nostalgie per il chiostro, da una sete ardente per le solitudini sconfinate, da un desiderio d'immergersi completamente in Dio e di vivere solo per Lui. Erano sospiri che esplodevano in preghiere ardenti e in abbandoni fiduciosi nella Provvidenza. Solo la Provvidenza poteva ormai operare il miracolo di piegare la volontà degli uomini in suo favore. Ma la grazia andava meritata con penitenze sempre nuove. Perciò intensificava il suo programma di vita spirituale, tutto proteso verso un bene, più che intravisto, presentito dalla sua anima. Attendeva e sentiva che l'attesa non sarebbe stata vana. E nell'agosto del 1748 il sogno parve prendere consistenza.

Era una di quelle giornate quando si respira come davanti alla bocca di un forno e la testa si piega dalla sonnolenza e dalla stanchezza. Gerardo stava lavorando nel suo negozio, quando gli si fece avanti una strana figura vestita di nero. Si levò il cappellaccio dalle larghe falde rialzate e fece scivolare dal collo una sporta. « è per il santuario di Caposele, per costruire una casa ai nostri missionari che predicano ai poveri e agli abbandonati ». E conficcò il mento nell'apertura di un enorme collarino bianco.

Mentre egli parlava, Gerardo si sentiva muovere verso di lui da una segreta simpatia : chiese maggiori spiegazioni sull'Istituto cui apparteneva, lo trovò perfettamente corrispondente ai suoi ideali e, impetuoso come sempre, si offerse a seguirlo. Fratello Onofrio si fece grave: « La Congregazione non fa per te», rispose, « da noi si patisce molto ; si dorme sulla paglia, si vive con rigore ».

Ed egli con un salto di gioia: « Oh fratello mio! E questo appunto vado cercando ! ». Fratello Onofrio si strinse nelle spalle : che poteva far lui ? Doveva parlarne col padre Garzilli, quello che predicava in cattedrale. Solo lui poteva dare una risposta. E si avviò verso la strada, chiuso nella sua fascia di lana, agitando il lungo rosario che gli pendeva al fianco.

Gerardo si recò più volte dal padre Garzilli ; lo interrogò sull'Istituto e sulla sua regola, gli parlò della propria vocazione. Ma tutto finì li : forse perché ne fu dissuaso, forse perché si frapposero ostacoli. Tornò quindi nella sua squallida bottega a moltiplicare le preghiere e le penitenze.

Gli sembrava che a ogni colpo di fune sul dorso nudo, il missionario alto e scarno fosse li a ripetergli: « Da noi si patisce molto ! » e ad incitarlo a raddoppiare i colpi per rendersi degno della nuova vita appena intravista. Quell'anno si preparò con più fervore alla nascita del Bambino e in quaresima rivisse più intensamente il suo programma di « Morire con Gesù », ripetendo spesso: « Gesù è morto per me ed io voglio morire con Lui». All'avvicinarsi della settimana santa, sembrava un cadavere, ravvivato solo da un desiderio infinito di sofferenza che lo bruciava come una ferita. Quando quegli occhi dilatati si posavano sul Crocifisso, sembrava che le due immagini si fondessero in una sola immagine di dolore, irrigidita nella carne senza sangue.

Forse era in uno di questi momenti di dedizione perfetta al suo Esemplare, quando, secondo il racconto del Tannoia, fu scelto a rappresentare in cattedrale le ultime ore del Maestro morente: nessuno meglio di lui poteva incarnare, senza finzione, unto mistero di umano dolore.

Il Settecento aveva ereditato dal secolo precedente il gusto delle scene violente, ispirate al verismo spietato perfino nella sacra liturgia. Ancora adesso nelle regioni del Mezzogiorno i vecchi ricordano con rimpianto i calvari viventi, soliti a rappresentarsi nella settimana santa con gran concorso di fedeli.

E anche quel pomeriggio del 4 aprile del 1749, venerdì santo, la cattedrale mareggiava di una folla compunta nell'attesa del mistero. Lentamente caddero i veli e sullo sfondo dell'abside, leggermente illuminato, si disegnarono tre corpi nudi confitti in croce ai piedi tumultuava la folla dei soldati e delle sante donne, tra cui la Vergine in gramaglie e la Maddalena genuflessa ai piedi di Gesù. Ma l'attenzione fu subito rapita dalla figura del crocifisso di mezzo con lo spasimo diffuso in tutto il corpo, specialmente nel volto affilato e contratto dall'agonia. Si sarebbe giurato che stesse lì lì per spirare, e l'impressione raccoglieva in un attimo di sospensione la, moltitudine. In quel silenzio, in quell'attesa, s'udì un grido, poi un tonfo. Tutti si volsero in un punto: una donna era a terra svenuta. Nel crocifisso di mezzo aveva riconosciuto il suo Gerardo. All'improvviso si era sentita associata a un gran dolore ed era caduta sotto il peso, povera, umile donna, non eroina, non santa : solo madre. Ma la madre è sempre su ogni calvario e mamma Benedetta sarà ancora chiamata a partecipare col suo contributo di lacrime al sacrificio totale del figlio. Perché l'ora dell'immolazione suprema è ormai suonata.

Il 13 aprile, domenica in Albis, giungeva a Muro una compagnia di missionari : apparteneva allo stesso Istituto dei due missionari visti da Gerardo nell'agosto precedente. La compagnia era guidata da un santo autentico, dal padre Paolo Cafaro, direttore spirituale di S. Alfonso e dei primi Redentoristi, tutti uomini eroici per virtù e dottrina. Piccolo e mingherlino, dalla testa enorme, dal volto a triangolo, il padre Cafaro era di quegli uomini che s'imponevano per lo zelo indomito. « Le sue parole - scrisse Sant'Alfonso - erano saette che ferivano. Quando parlava dell'eternità, faceva tremare ognuno che l'udiva». I compagni lo chiamavano: « L'ira di Dio ».

Sotto il suo comando, i Padri presero d'assalto le parrocchie e le chiese della città, secondo un piano prestabilito. Prima si terrorizzavano i peccatori con le prediche di massima, poi si aprivano alla speranza con le figurazioni sempre nuove e patetiche del Buon Pastore e del Figliuol Prodigo ; in ultimo s'istituiva l'esercizio della vita devota per consolidare i frutti di penitenza. La missione durava così dai venti ai trenta giorni. Ed erano giorni di rivoluzione spirituale. Quegli uomini rudi, dall'aspetto ispido e incolto, quando salivano sui palchi si travestivano di fuoco, sollevando l'uditorio a tale delirio collettivo da rasentare la follia. Chi si picchiava il petto, chi si strappava i capelli, chi dava la testa nel muro.

Tutto era preparato e tutto concorreva al grande effetto finale con una tecnica studiata nei minimi particolari. Si cominciava sull'imbrunire con la recita cantata del rosario. Tra una decade e l'altra, il predicatore proponeva il mistero : seguiva il canto lento e pausato del Pater e dell'Ave che disponeva al raccoglimento. Così i fedeli a mano a mano che entravano nel tempio, si trovavano immersi in una atmosfera satura di spiritualità. Seguivano altri canti più larghi e distesi, poi l'istruttore saliva sul palco e istituiva una specie di dialogo col pubblico sul tema dei comandamenti di Dio e dei precetti della Chiesa e, specialmente, sulla confessione sacramentale. Erano scenette colte dal vero e il pubblico le seguiva senza sforzo, sorridente, quasi divertito. Appena taceva, s'intonavano canti raccolti, dolenti, che preparavano l'ambiente alla predica grande.

Allora, grave e compunto, il predicatore per eccellenza saliva a sua volta sul palco e già un brivido di freddo percorreva la chiesa. Poi, a voce bassa, profonda, iniziava a parlare, crescendo a mano a mano di tono e di forza, cadenzando le parti più importanti, cantando le parole tematiche. La parola cedeva al canto, il canto alla mimica, al quadro plastico : giacché l'elemento visivo era ritenuto - giustamente - il più adatto alla rude intelligenza del popolo in gran parte analfabeta. Fiammate di stoppa ardente parlavano dell'inferno; immagini di persone divorate dal fuoco, uncinate dai demoni, appinzate da scorpioni e serpenti, parlavano dei dannati; teschi, scavati dall'ossario comune, della vanità d'ogni cosa. E l'Addolorata in gramaglie piangeva a lato del palco; e un Crocifisso, stracciato in ogni vena, passava tra ceri accesi in mezzo alla moltitudine costernata. Nelle perorazioni pareva il finimondo ; ogni sentimento d'amore, di terrore, di pentimento veniva portato al parossismo e i gemiti, i singulti, gli urli divenivano assordanti, come se l'abisso si fosse spalancato sotto i piedi dei fedeli per ingoiarli in carne e ossa e tutta la loro salvezza rimanesse appesa a quell'uomo che si agitava sul palco, armato, di volta in volta, di un Crocifisso, di un teschio, o di due semplici candele incrociate che illuminavano il volto spettrale della Madonna. Poi, quando aveva esaurito tutte le risorse della sua eloquenza, il missionario si toglieva la corda dal collo e lì, alla presenza di tutti, cominciava a flagellarsi aspramente, rimescolando ed esasperando ad ogni colpo quella marea sconvolta di passioni in delirio. L'esercizio terminava in tronco perché l'impressione si prolungasse nella notte.

Allora un altro missionario saliva sul palco, invitava le donne a uscire, gli uomini a restare. Ristabilito il silenzio, ricapitolava brevemente la predica grande, esortando alla penitenza. A questo fine ognuno doveva portarsi da casa delle cordicelle intrecciate. La sera appresso tornava ad insistere : « Chi ha portato la disciplina, la levi in alto: la voglio benedire ». Alla terza o quarta sera, parecchi si presentavano armati di fruste e non attendevano che un cenno del missionario per picchiarsi.

Gerardo, naturalmente, era sempre in prima fila. Per quei giorni, addio negozio, addio clienti, addio casa propria! La sua casa era la chiesa e il castello dove i missionari alloggiavano : spazzava le stanze, rammendava la biancheria, aiutava il cuoco. La mattina e la sera correva ad ascoltare le prediche, a orecchie tese per non perdere una sillaba. Al secondo giorno, aveva con sé la sua brava fune, pronto a darsele sode. Era là, davanti a tutti, gongolante, come se lo invitassero a nozze. Al terzo giorno, il missionario esortò alla penitenza e diede il via: allora da ogni parte cominciò un rumore come di gragnuola sui tetti. Nella penombra si scorgeva un violento incrociarsi di braccia e un agitarsi irregolare di corde che ricadevano sulle casacche polverose. Il picchiettare canterino delle fruste era pausato dai colpi più cupi di una fune nodosa. Tutti ne capivano la provenienza e tutti pensavano a Gerardo, specialmente gli amici che decisero di combinarne una delle loro. All'indomani gli si posero alle costole e, quando il missionario diede il segnale, gli scaricarono addosso le loro frustate. In quel parapiglia, nessuno vi badò e non vi badò neppure lui, altrimenti li avrebbe ringraziati.

Intanto, col passare dei giorni, Gerardo si rafforzava nel suo proposito di entrare nell'Istituto. Ve lo spingeva l'esempio di quei Padri che incarnavano un ideale di santità tanto semplice e pratico e insieme tanto efficace per le anime. Perché la santità redentoristica è in questo binomio : zelo apostolico e amore alla Croce : tutto come voleva Gerardo. Perciò decise di parlarne col padre Cafaro. Questo missionario austero e zelante era anche un uomo coi piedi solidamente piantati per terra, gran lavoratore dalle braccia robuste che stimava gli uomini per quello che sanno produrre sul campo dove Dio li mette : il missionario da missionario, il fratello coadiutore da fratello coadiutore. Il fratello coadiutore esercita il suo zelo apostolico in cucina, in sagrestia, in guardaroba, nell'orto. Umili mansioni agli occhi degli uomini, ma grandi al cospetto di Dio che, per mezzo degli umili, porta a salvamento le anime. Ma come esercitare tale missione senza una salute almeno discreta ? Sarebbe lo stesso che tentare Dio. Questo il problema che dovette porsi il padre Cafaro nel posar gli occhi su quel candidato che tirava l'anima coi denti, con la fama d'indolente e scansafatiche e, perché no ? anche di scemo. Sarebbe stato un soggetto inutile e quindi nocivo a se stesso e agli altri. La vocazione ? Se Dio chiama, dà anche l'attitudine a seguir la vocazione; in primo luogo, la salute. Se non la dà, è segno manifesto che non c'è vocazione.

Fermo su tali principi, il p. Cafaro non esitò un momento a respingere il postulante : « No, la nostra vita non è fatta per te». « Provatemi! ».

« Che vuoi provare? è fin troppo evidente». E lo lasciò in asso.

Gerardo tornò a casa afflitto, ma non abbattuto, anzi più che mai deciso a rimettersi ciecamente nelle mani della Provvidenza. La vittoria sarà sua, pensava; non può esservi dubbio. Forte di questa speranza umanamente fondata sul nulla, distribuì ai poveri le sue ultime robe. A un fanciullo, Carmine Petrone, suo lontano parente, che gli era stato vicino in quei giorni, diede una camicia e due paia di calzonetti. Era tutto il suo capitale. Ora non aveva più nulla, proprio come gli uccelli dell'aria e i gigli dei campi chiamati a modello dal Salvatore. Ora, come S. Francesco, poteva con più ragione invocare Dio suo Padre; ora poteva riposare con più fiducia sulle sue braccia, sicuro di non essere abbandonato. Ora poteva effondersi in una preghiera più tranquilla, come chi ha trovato finalmente la nave che dovrà condurlo in porto.

Quando ? diceva serenamente, ponendosi in ascolto se gli giungesse il cenno del Nocchiero Divino. Perfino nel sonno balzava in piedi e tendeva le orecchie nel vano della finestra, invasa dal più bel chiaro di luna. Poi prendeva un libro, leggeva alcuni passi e rimaneva come sospeso nel silenzio notturno, il viso piegato da una parte ; gli occhi fissi nel cielo tempestato di stelle.

Coi mezzi divini non trascurava gli umani. Continuò a frequentare i Padri, a raccomandarsi ora all'uno, ora all'altro con parole che strappavano lacrime. Trovava compassione, ma non convinceva nessuno, perché tutti erano convinti della stessa verità : che la salute è il capitale del missionario, capitale umano, beninteso, ma sempre capitale. Chi non può sopportare il peso della regola, non deve neanche abbracciarla: sarebbe peccato mortale. I principi sono chiari e perentori e non è facile cogliere l'opportunità dell'eccezione.

Intanto, a forza di parlarne a questo e a quello, la cosa era arrivata all'orecchio della mamma, la quale si mise all'erta. Cercò dapprima d'espugnare il cuore del figlio con tutta l'eloquenza di cui era capace il suo amore disperato. Poi ricorse all'eloquenza delle lacrime e una sera gli cadde genuflessa ai piedi: « Non lasciarmi », diceva tra uno sbotto e l'altro di pianto, « non lasciarmi così sola e vecchia! Non lasciarmi, per quel dolore che hai sofferto in Croce e hai fatto soffrire anche a me, tua madre!».

Con quel corpetto nero e quello spasimo dipinto sul volto, seni, brava proprio l'Addolorata ai piedi di Gesù. Anche Gerardo era ancora in Croce e gli si porgeva, per la sua sete, una tazza di fiele. Come il Maestro, lo trangugiò fino all'ultima goccia, con gli occhi al cielo per non piangere. Lo ricorderà più tardi ai confratelli di religione, velando nella celia esterna, la commozione del cuore.

Svanito il tentativo, la madre si rivolse al p. Cafaro : gli fece presente la sua povertà, la sua vecchiaia e il bisogno estremo che aveva del figlio. Predicava a un convertito. Il Padre la rassicurò sulle proprie intenzioni, ma insieme le fece capire che bisognava tener d'occhio suo figlio, il quale sarebbe stato capace di tutto. Dopo di che, credette sistemata la faccenda e non vi pensò più. Infatti, scrivendo, il primo maggio, da Muro a S. Alfonso, gli parlava, tra l'altro, di una preziosa conquista : nientemeno che del cuoco di monsignor Mojo ! Un cuoco eccellente che si sarebbe fatto onore con gli esercizianti di Ciorani. Non una parola per il nostro Gerardo, forse perché lo scrivente aveva fretta, essendo giorno di comunione generale. O meglio, perché lo credeva definitivamente liquidato.

Ma il giorno della partenza dei missionari scoccò l'ora di Gerardo ; l'ora delle decisioni risolutive che fanno dell'uomo un eroe o un vinto della vita.

Carcerato dalla mamma, trovò modo di evadere dalla prigione, saltando dalla finestra; respinto dai missionari durante il viaggio, trovò modo di portarsi con loro a Rionero del Vulture ; respinto ancora, trovò la forza di resistere «ostinatamente», come scrive il primo biografo, il padre Caione. Due volontà erano di fronte quella ferrea, immutabile del padre Paolo Cafaro, il santo e terribile padre Cafaro, definito « L'ira di Dio» e quella umile di Gerardo, sostenuta dalla grazia.

E Gerardo piegò « L'ira di Dio ».

Cancellazione dati iscrizione

Inserisci il numero di cellulare e\o la mail con cui ti sei registrato e clicca sul tasto in basso

CHIUDI
CONTINUA

INFORMATIVA PRIVACY

Lo scopo della presente Informativa Privacy è di informare gli Utenti sui Dati Personali, intesi come qualsiasi informazione che permette l’identificazione di una persona (di seguito Dati Personali), raccolti dal sito web www.sangerardomaiella.it (di seguito Sito).
La presente Informativa Privacy è resa in conformità alla vigente normativa in materia dei Dati Personali per gli Utenti che interagiscono con i servizi del presente Sito nel quadro del Regolamento Ue 2016/679.

Il Titolare del Trattamento, come successivamente identificato, potrà modificare o semplicemente aggiornare, in tutto o in parte, la presente Informativa; le modifiche e gli aggiornamenti saranno vincolanti non appena pubblicati sul Sito. L’Utente è pertanto invitato a leggere l’Informativa Privacy ad ogni accesso al Sito.

Nel caso di mancata accettazione delle modifiche apportate all’Informativa Privacy, l’Utente è tenuto a cessare l’utilizzo di questo Sito e può richiedere al Titolare del Trattamento di rimuovere i propri Dati Personali.

  1. Dati Personali raccolti dal Sito
    • Dati Personali forniti volontariamente dall’Utente

      L’invio facoltativo, esplicito e volontario di posta elettronica agli indirizzi indicati sul sito comporta la successiva acquisizione dell’indirizzo del mittente, necessario per rispondere alle richieste, nonché degli eventuali altri dati personali inseriti nella missiva. Specifiche informative di sintesi verranno progressivamente riportate o visualizzate nelle pagine del Sito predisposte per particolari servizi a richiesta.
      L’Utente è libero di fornire i Dati Personali per richiedere i servizi eventualmente offerti dal Titolare. Il loro mancato conferimento può comportare l’impossibilità di ottenere quanto richiesto.

    • Dati Personali raccolti tramite cookie:

      Nel Sito viene fatto uso di cookie strettamente essenziali, ossia cookie tecnici, di navigazione, di performance e di funzionalità.
      I cookie sono informazioni inserite nel browser, fondamentali per il funzionamento del Sito; snelliscono l’analisi del traffico su web, segnalano quando un sito specifico viene visitato e consentono alle applicazioni web di inviare informazioni a singoli Utenti.
      Nessun dato personale degli Utenti viene in proposito acquisito dal Sito.
      Non viene fatto uso di cookie per la trasmissione di informazioni di carattere personale, né vengono utilizzati c.d. cookies persistenti di alcun tipo, ovvero sistemi per il tracciamento degli utenti.
      L’uso dei cookie di sessione (che non vengono memorizzati in modo persistente sul computer dell’Utente e svaniscono con la chiusura del browser) è strettamente limitato alla trasmissione di identificativi di sessione, necessari per consentire l’esplorazione sicura ed efficiente del Sito.
      I cookie di sessione utilizzati in questo Sito evitano il ricorso ad altre tecniche informatiche potenzialmente pregiudizievoli per la riservatezza della navigazione degli Utenti e non consentono l’acquisizione di Dati Personali identificativi dell’Utente.

  2. Finalità e Base giuridica del Trattamento

    I Dati Personali raccolti possono essere utilizzati per finalità di registrazione dell’Utente, ossia per consentire all’Utente di registrarsi al Sito così da essere identificato. Base giuridica di questo trattamento è il consenso liberamente espresso dall’Utente interessato.
    I Dati Personali forniti dagli Utenti che inoltrano richieste o intendono utilizzare servizi eventualmente offerti tramite il Sito, nonché ricevere ulteriori specifici contenuti, sono utilizzati al solo fine di dare riscontro alle richieste o eseguire il servizio o la prestazione richiesta e sono comunicati a terzi nel solo caso in cui ciò sia a tal fine necessario. Base giuridica di questi trattamenti è la necessità di dare riscontro alle richieste degli Utenti interessati o eseguire attività previste dagli eventuali accordi definiti con gli Utenti interessati.
    Con il consenso espresso dell’Utente i dati potranno essere usati per attività di comunicazione commerciale relativi ad offerte di eventuali servizi offerti dal Titolare. Base giuridica di questo trattamento è il consenso liberamente espresso dall’Utente interessato.
    Al di fuori di queste ipotesi, i dati di navigazione degli utenti vengono conservati per il tempo strettamente necessario alla gestione delle attività di trattamento nei limiti previsti dalla legge.
    È sempre possibile richiedere al Titolare di chiarire la base giuridica di ciascun trattamento all’indirizzo info@sangerardomaiella.it.

  3. Modalità di trattamento

    Il Trattamento dei Dati Personali viene effettuato mediante strumenti informatici e/o telematici, con modalità organizzative e con logiche strettamente correlate alle finalità indicate. Il Trattamento viene effettuato secondo modalità e con strumenti idonei a garantire la sicurezza e la riservatezza dei Dati Personali.

    In alcuni casi potrebbero avere accesso ai Dati Personali anche soggetti coinvolti nell’organizzazione del Titolare (quali per esempio, amministratori di sistema, ecc.) ovvero soggetti esterni (come società informatiche, fornitori di servizi, hosting provider, ecc.). Detti soggetti all’occorrenza potranno essere nominati Responsabili del Trattamento da parte del Titolare, nonché accedere ai Dati Personali degli Utenti ogni qualvolta si renda necessario e saranno contrattualmente obbligati a mantenere riservati i Dati Personali.

  4. Luogo

    I Dati Personali sono trattati presso le sedi operative del Titolare ed in ogni altro luogo in cui le parti coinvolte nel trattamento siano localizzate. Per ulteriori informazioni, è sempre possibile contattare il Titolare al seguente indirizzo email info@sangerardomaiella.it oppure al seguente indirizzo postale Via Trinità 41, 85054 Muro Lucano (PZ).

  5. Diritti dell'Utente

    Gli Utenti possono esercitare determinati diritti con riferimento ai Dati Personali trattati dal Titolare. In particolare, l’Utente ha il diritto di:

    • revocare il consenso in ogni momento;
    • opporsi al trattamento dei propri Dati Personali;
    • accedere ai propri Dati Personali e alle informazioni relative alle finalità di trattamento;
    • verificare e chiedere la rettifica;
    • ottenere la limitazione del trattamento;
    • ottenere la rettifica o la cancellazione dei propri Dati Personali;
    • ottenere l’integrazione dei dati personali incompleti;
    • ricevere i propri Dati Personali;
    • proporre reclamo all’autorità di controllo della protezione dei Dati Personali.
  6. Titolare del Trattamento

    Il Titolare del Trattamento è TC65 S.r.l., con sede in Via Trinità 41, 85054 Muro Lucano (PZ), Partita Iva 01750830760, indirizzo email: info@sangerardomaiella.it

Ultimo aggiornamento 27/07/2021