San Gerardo Maiella
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Con tre chiodi

Capitolo XV

L'anno 1752 fu l'anno cruciale per il monastero di Ripacandida e per la priora Maria di Gesù, a causa di alcuni motivi di contrasto affiorati in quell'anno, ma forse già latenti nella mente stessa del fondatore. Il quale non si era mai proposto il problema sul carattere da dare all'opera sua: se di autonomia completa, o di aggregazione alla più ampia famiglia teresiana. Perché, se da una parte, egli aveva chiesto consigli ed aiuti ai Carmelitani Scalzi di Napoli, anzi ne aveva chiamato uno come istruttore delle suore, dall'altra, era andato avanti per conto proprio, contento d'introdurre la regola primitiva di S. Teresa, resa ancora più rigida con altre prescrizioni, senza curarsi soverchiamente delle costituzioni dell'Ordine, già fissate fin dal 1581, poi « corrette ed approvate, aggionte e mutate per Sisto V e in alcuna parte per Gregorio XIV ».

Il problema venne alla ribalta dopo la morte del fondatore quando il monastero fu canonicamente stabilito e cominciò a svilupparsi con una bella fioritura di santità. Allora le suore, consigliate dal vescovo diocesano, Teodoro Basta, loro protettore e direttore fin dalle origini, chiesero ai Padri Carmelitani di essere aggregate al loro Ordine per usufruirne i vantaggi spirituali. I Carmelitani acconsentirono, ma a condizione che fossero abbracciate le costituzioni e il cerimoniale dell'Ordine senza di cui ogni aggregazione sarebbe riuscita per lo meno anacronistica. E così, senza che nessuno lo volesse, anzi adoperandosi tutti per il meglio, venne fuori il contrasto. Perché il vescovo, più che mai desideroso di porre il monastero ancor troppo giovane sotto la guida sperimentata dell'Ordine illustre di cui era ammiratore, trovò logica e naturale la condizione e l'impose di autorità, mentre le suore che avevano ancora nelle orecchie gli anatemi

del fondatore contro ogni forma d'innovazione, opposero resistenza. E dall'una parte e dall'altra si schierarono i patrocinatori: c'era infatti chi giudicava che avesse ragione il vescovo, e chi invece temeva nell'aggregazione ai Carmelitani la perdita di quel fervore che allora regnava nella comunità. E il doppio schieramento minacciava di creare dissidi e compromettere la stabilità stessa dell'opera.

(1) Il monastero di Ripacandida. Le notizie sul monastero di Ripacandida sono desunte dalla «Vita del gran Servo di Dio Giambattista Rossi, Arciprete di Ripa Candida. Napoli 1752 s. L'arciprete era entrato nel noviziato dei Carmelitani Scalzi di Chiaia nel 1707, ma per la forte miopia, ne era stato dimesso prima ancora della vestizione. Dalla delusione, lo confesserà lui stesso al superiore generale dell'Ordine, nacque il suo desiderio di fondare quel monastero di Teresiane che iniziò poi nel 1735. (Ivi, pag. 80). Ne ottenne il decreto di clausura papale nel 1737, ma questo fu applicato soltanto dopo la sua morte, quando finalmente si poté ottenere un giardino accanto al monastero. In quell'occasione si parlò, per la prima volta, di mitigazione della regola primitiva di S. Teresa, rendendo durature alcune disposizioni transitorie già permesse dal fondatore, ma le suore « si misero a piangere dirottamente... e si protestarono di non voler Professare se non si obbligavano ad ogni strettissima Osservanza della Regola primitiva, né si quietarono se non furono assicurate che tosi appunto farebbesi come si fece n. (Ivi, pag. 191).

Il tentativo della mitigazione dovette partire direttamente o indirettamente da mons. Teodoro Basta da cui dipendevano le suore. Egli aveva scritto per loro un'istruzione sulla perfezione religiosa ed era tanto affezionato al monastero da tentare d'introdurvi anche una propria nipote, suora del monastero di Nardò. (Ivi, pag. 178).

La mitigazione era consigliata dalla prudenza, perché la regola sembrava davvero troppo rigida, ma il vescovo dovette desistere in attesa di un'occasione più propizia. E l'occasione si presentò da sola nel 1752 quando si trattò di aggregare il monastero all'Ordine carmelitano, compiendo così un desiderio del fondatore. Infatti, era stato lui a rivolgersi per aiuto ai suoi antichi confratelli. Nel maggio del 1738 aveva chiamato da Napoli il p. Carlo Felice di S. Teresa che aveva regolato personalmente tutto l'andamento del monastero. Poi, quando questi mori « con grido di santità n, fu ancora il fondatore a sollecitare la venuta del p. Carlo di S. Giuseppe e a chiedere l'aiuto del p. Giuseppe Maria di S. Carlo, vivente ancora nel 1752. Questi potrebbe essere il Teresiano di cui parla S. Alfonso nella sua lettera del 23 febbraio del 1753 alla priora Maria di Gesù.

Ma i Carmelitani che, vivendo il fondatore, si erano mostrati alquanto restii ad intervenire, quando furono invitati dal vescovo e dalle suore per un atto ufficiale di aggregazione, vollero fare sul serio. Ed avevano tutti i motivi per farlo. Un'aggregazione senza l'applicazione delle costituzioni pontificie non avrebbe avuto senso. D'altra parte, il fondatore, per un eccesso di zelo e di sua iniziativa, aveva aggiunto alla regola primitiva di S. Teresa altri esercizi spirituali. (Ivi, pag. 89).

Ma purtroppo, le suore non erano in grado di ascoltare le ragioni dettate dalla prudenza. Sarebbe stato per loro tradire lo spirito del fondatore che soleva ripetere che « quando trattavasi di regola... più presto avrebbe dismesso il luogo, contentandosi di perdere fatiche e spese così esorbitanti,... che permettere che una sol costumanza di Scalze Teresiane andasse in disuso». (Ivi, pag. 89-90).

La meno qualificata a cedere alle pressioni dei Carmelitani era la priora Maria di Gesù che venerava il fondatore come zio e come padre spirituale. Ella, infatti, rimasta ancor bambina orfana del padre, il dottor Cesare Araneo di Pescopagano, era stata affidata dalla madre, sorella minore dell'arciprete, alle cure dello zio. Questi che già pensava alla fondazione, l'aveva educata all'ideale monastico segregandola completamente dal mondo. A 10 anni (era nata verso il 1725) l'aveva rinchiusa nel monastero, facendole da maestro, da direttore, da superiore e lasciandola infine a continuar l'opera sua. Si capisce perciò come costei avversasse ogni idea di mitigazione anche a costo di veder sfumare la tanto sognata aggregazione all'Ordine. E i Carmelitani dovettero desistere e con loro anche il vescovo.

Ma la soluzione lasciò insoddisfatta madre Maria di Gesù che il 30 marzo del 1758 si rivolgerà direttamente al superiore generale dell'Ordine, chiedendo una specie di aggregazione sui generis, un'aggregazione, cioé, che, rispettando la completa autonomia del monastero, si limitasse a far partecipare le suore a tutte le opere buone dell'intero Istituto e a inserire il loro monastero nel catalogo generale. Riportiamo la lettera «Maria di Gesù, attuale Priora delle Carmelitane Scalze di S. Giuseppe di Ripaeandida, si umilia a' piedi di V. R. Padre Nostro e gli fa noto come, essendosi qui fondato un Monistero di Carmelitane Scalze di clausura dove si serva Dio dadovero, vorrebbe la consolazione di non essere questo totalmente disgregato dal corpo della Nostra Religione. Pertanto, io prego V. R. Padre Nostro, per amore della Nostra S. Madre, a volersi compiacere di accettarlo ed unirlo al catalogo di quelle altre nostre case di Scalze che sono ordinis, sì, sed non Jurisditionis : mentre di questa maniera vorebbero [verrebbero] le Scalze di questa ossa a godere di tutti i privilegi spirituali che godono l'altre Nostre Scalze; e non vorebbero [verrebbero] ad esser più membri estranei del mistico [mistico] corpo della nostra S. Religione. Mi consola [consoli], dunque, col suo benigno assenso, Padre nostro, dichiarandomi da questo punto per umilissima figlia e serva di V. R. Padre Nostro siccome, una per una, fanno tutte le Monache e tutte si umiliano a' piedi di V. R., Padre Nostro, gli domandiamo la S, benedizione, ed io, in nome di tutte, con piena stima, mi dedico.

Di V. R. Padre Nostro, Ripacandida alli 30 Marzo 1758 Umilissima figlia e serva Maria di Gesù Carmelitana Scalza Priora.

Purtroppo, la petizione rimase inascoltata e il monastero, tanto caro a S. Alfonso e a S. Gerardo, non figurò mai in nessun catalogo dei Carmelitani Scalzi. La sua storia fu tutta racchiusa dentro le mura cittadine e si spense nel novembre del 1908 quando le ultime suore, cacciate dal loro asilo, trovarono rifugio nel monastero di Massa Lubrense, fondato nel 1673 dalla Ven. Serafina da Capri. Così le figlie delle Carmelitane Riformate si fondevano con quelle dell'antica osservanza. E vi sparivano senza lasciar traccia. Forse nessuno le avrebbe più ricordate se, nel primo periodo della loro esistenza, non avessero avuto la fortuna d'incontrarsi coi due grandi santi redentoristi.

Perciò il vescovo prudentemente cominciò con l'isolare il monastero, imponendo un direttore di sua fiducia e proibendo di dirigersi da altri.

L'ordine produsse, com'era prevedibile, tale malumore che la madre Priora, non sapendo dove dar la testa, si rivolse a Sant'Alfonso che rispose con la lettera del 27 gennaio, cercando di riportare la calma tra le suore con l'unico argomento a sua disposizione la volontà di Dio: « Donde nasce questa inquietudine ? Perché non trovano il Direttore come lo desiderano ? Ma quando Dio così vuole, perché ha da dispiacere loro quello che piace a Dio ?... è certo che a Dio piace così, perché così comanda il Vescovo... Non abbiate né ora, né appresso, scrupolo di avermi scritto senza ubbidienza... Dite alle sorelle vostre che mi tengano segreto con tutti, col confessore ed anche col Vescovo ». (Lettere, 1, 193).

Questa lettera non poteva distruggere tutte le inquietudini della buona madre Priora, che si riteneva responsabile davanti a Dio di ogni eventuale decadenza del primitivo fervore. Mentre ella cercava di fare appello a tutta la sua virtù per resistere e lottare, Dio la colpì con una prova ancora più dolorosa di cui troviamo echi piuttosto vivaci nella sua corrispondenza con Sant'Alfonso. In una lettera ella si autodefinisce la « bruttezza infinita», incapace di pregare, di pensare e di agire liberamente; dice di sentirsi ripiombata nel profondo dell'inferno dalle sue « tante schifezze » e tuttavia talmente unita a Dio, da sembrarle d'idolatrare se stessa, quando, dopo la comunione, adorava Dio nella propria anima. Passava dunque in quello stadio chiamato da San Giovanni della Croce: seconda notte, o notte dello spirito. L'incontro del divino e dell'umano nella stessa anima produce tale contrasto doloroso che l'anima teme, da un momento all'altro, di soccombere e morire.

La suora aveva bisogno della guida e Dio le mandò, oltre a Sant'Alfonso, il dottore che rischiara, anche San Gerardo, il serafino che conforta e solleva. Infatti quello che nel primo è affermazione e ragionamento, prudenza ed esperienza soprannaturale, diventa nel secondo partecipazione attiva e impeto lirico. Ecco con quanto affetto le scriveva in data 22 febbraio : « Dio sa l'affezione che mi cagionate, perché vi vedo così afflitta, ma la mia non è vera affezione naturale, ma invidia. Benedetto sia sempre il Signore che in tale stato vi ritiene per farvi gran santa! Su dunque allegramente e non temete! Statevi forte e con coraggio alle battaglie per vincere poi un più valoroso trionfo nel nostro regno del cielo ».

Dopo questo esordio così infuocato in cui la partecipazione al dolore è tanto viva da trasformarsi in sentimento d'invidia, Gerardo tocca l'argomento vero e proprio: l'oggetto della tentazione, ma non si ferma ad analizzarlo e confutarlo. Gli basta affermare che la tentazione è opera del demonio il quale vuole atterrirci e spaventarci per farsi credere vincitore. Individuato il nemico, bisogna imbracciare l'arma sicura per abbatterlo e trionfare: l'aiuto di Dio. Dio permette che ci sentiamo confusi e deboli, ma lo permette perché noi possiamo congiungere la nostra debolezza,con la sua potenza e renderci più gagliardi col divino volere: « Non ci prendiamo spavento di quello che il maligno spirito semina nei nostri cuori, perché quello è l'ufficio suo, e l'ufficio nostro non è di dargliela vinta nelle sue opere. Non gli crediamo, perché noi non siamo quello che lui vuole e dice che siamo. Egli lo fa per atterrirci e spaventarci e farci credere in tal modo che lui è il vincitore con le sue cattive opere. è vero che talvolta ci vediamo confusi e deboli, ma non c'è confusione con Dio, non c'è debolezza colla divina potenza, perché è certo che nelle battaglie la divina maestà ci aiuta col suo divino braccio. Perciò possiamo stare allegramente ed ingrandirci più forte al divino volere, e noi benediciamo le sue santissime opere per tutta l'eternità». (o. c., pag. 16-17).

Alcune settimane più tardi, nella lettera del primo aprile, il santo dopo avere accennato, ancora una volta, ma velatamente, al motivo della prova, ricorda alla madre Priora che ogni giorno le viene incontro, pregando per lei nella santa comunione e nella visita al SS. Sacramento, e recitando « puntualissimamente » 1'Ave Maria promessa. Il fine di tali preghiere è uno solo : « perché il Signore la faccia gran santa ».

Era il sabato santo e Gerardo sperava di visitare, quanto prima, il monastero, per portarvi il conforto della sua parola. L'occasione si presentò dentro l'ottava di Pasqua, quando passò per Deliceto il padre Cafaro in viaggio per Melfi. Forse doveva trattare col vescovo; a nome di Sant'Alfonso, della fondazione di una casa a Rionero. Gerardo fu destinato ad accompagnarlo, con l'incarico di proseguire poi fino ad Atella e Ripacandida per il disbrigo di varie commissioni.

La prima parte del viaggio si svolse secondo i piani prestabiliti, non così la seconda. Perché quando Gerardo giunse ad Atella, fu sequestrato a viva forza da don Benedetto Graziola che voleva tenerlo con sé il più a lungo possibile : « Mi ha trattenuto a forza in sua casa; ha fatto in modo da non darmi tempo di venire costì », scriverà poi lo stesso santo alla Priora di Ripacandida. Infatti era ancora ad Atella, quando gli arrivò l'ordine del padre Cafaro di raggiungerlo in Melfi. Ubbidì prontamente, ma non trovò il suo direttore che aveva anticipato il ritorno a Caposele.

Trovò invece una lettera molto gentile della madre Maria di Gesù col pezzetto della statua di Santa Teresa che aveva richiesto il primo aprile. La Madre prometteva preghiere da parte delle suore, sollecitava la sua visita e, in ultimo, mandava a salutare un eremita di Deliceto, un certo fratel Gaetano che, più di una volta, era stato spedito dal padre Fiocchi come corriere presso il monastero.

Nella risposta, il santo, dopo aver ringraziata la Madre col solito impeto gioioso per le preghiere promesse, passa a parlare delle disavventure del suo viaggio con una uniformità serena e riposante

nella divina volontà che tutto permette e dispone. La parola caso, incidente, non cade sotto la sua penna: dietro l'evento più fortuito, c'è sempre la volontà di Dio. Avrebbe dovuto andare a Ripacandida e l'andata sarebbe stata di gloria di Dio, perché voluta dai superiori, ma gli avvenimenti posteriori avevano dimostrato che Dio non voleva tale gloria; il padre Cafaro era partito per Caposele « per mia mortificazione e per volontà di Dio».

La stessa uniformità si manifesta per altri incidenti: non ha ricevuto due delle tre lettere inviate dalla Priora. Un disguido postale? No, anche questo « è segno giusto che il divino volere non l'ha voluto ». Non potrà salutare fratel Gaetano se non per segni « per volontà di Dio, poiché così mi hanno comandato i miei Superiori che io non parli con nessuno (di quelli che sono) fuori del `nostro Collegio, ciò mi è riserbato solo quando io sto fuori » ; cioè in viaggio (o.c., pag. 2021).

La lettera termina con una formula insolita: « Fiat voluntas sua, ut remaneamus in Corde Jesu et Beatae Mariae Virginia ».

Questa insistenza sulla volontà di Dio ci lascia supporre che il santo si sentisse scosso internamente da qualche violento dolore ; ma la supposizione diventa realtà, quando riflettiamo alla data della lettera : il 16 aprile. A quella data, Gerardo aveva già saputo la morte della mamma Benedetta Galella, avvenuta il lo dello stesso mese. Era un dolore personale e se lo portò nel cuore silenziosamente, ma l'appello costante alla volontà di Dio ci dice che la sua non era indifferenza, ma rassegnazione e virtù.

Tornò tra le mura di Deliceto a guardare il cielo tra un velo di lacrime, ripetendo il suo Fiat, nella solitudine completa dagli uomini e dalle cose. Un raggio di sole lo sperava ancora da laggiù, da Ripacandida. Quando il superiore gli consegnava quelle lettere, profumate di preghiere e di sacrificio, il suo cuore sussultava di gioia, come davanti al messaggio del cielo. Ma Dio voleva ancora questo distacco e fece maturare altri avvenimenti dolorosi.

Dopo i noti provvedimenti a carico della comunità di Ripacandida, mons. Teodoro Basta credette giunto il tempo di procedere a un altro giro di vite, proibendo formalmente alle suore qualunque corrispondenza epistolare verso chiunque e per qualunque motivo, senza la previa licenza del direttore di spirito.

Costui, amicissimo del santo, sentì il dovere d'informarlo dell'accaduto e forse di qualche rammarico che serpeggiava nel monastero. Fu allora che Gerardo prese la penna e inviò alla madre Priora quella lettera chiamata giustamente dal padre Caione K degna d'eterna memoria», e tale da darci la misura della sua virtù e della sua perfezione. è una lettera in cui la volontà di Dio è amata, assaporata con volontà di compiacenza; diventa la sostanza stessa della propria anima, la sua unica gioia in questa vita e nell'altra. Il vescovo è l'esecutore fedele dei voleri di Dio e quindi amato con lo stesso impeto di amore verso Dio. Non soltanto Dio è « il nostro caro Dio », ma anche il vescovo è « Monsignore mio caro illustrissimo ». Poi il vescovo, come esecutore, scompare dalla scena e vi campeggia, sola e bellissima attrice, la volontà di Dio, tutta intenta a cullarci tra le sue braccia materne. E, il santo la contempla e gode di ogni suo movimento amoroso: « Io assai godo che il Signore vi levi da tanti impicci, poiché tutti son segni che vi ama assai e vi vuole tutta ristretta a Lui e vuole che vi risparmiate da tante fatiche. Onde' state allegramente e di buon animo, perché non son cose da darci pena, ma più presto allegrezza. Quando si tratta di volontà di Dio, cede ogni cosa».

Amarezza ? Sconforto ? Come sono concepibili in un'anima consacrata a Dio ? « Io non mi sono ancora potuto far capace come un'anima spirituale, consacrata al suo Dio, possa mai ritrovare amarezza su questa terra col non piacergli in tutto e sempre la bella volontà di Dio, essendo questa l'unica sostanza delle anime nostre ». Solo l'amor proprio ci può impedire l'acquisto di un tesoro si immenso, un paradiso celeste e terrestre, un Dio. Solo la vile ignoranza umana può immaginare di saper trovare, da sola, per raggiungere il cielo, una via migliore di quella tracciata dalla volontà di Dio. A questa considerazione, il sentimento trabocca nell'amarezza dell'invettiva: « Ahi! Maledetta proprietà che impedisce all'anima un sì immenso tesoro, un Paradiso terrestre, un Dio! Oh veramente gran cosa degna d'infinita considerazione ! Oh viltà dell'ignoranza umana, quanto fa trascurare un sì grand'acquisto... Forse non è quel Dio che tutto regge che ciò permette ? Forse non è sua sacrosanta volontà quella che ciò vuole ma non appare ? Vi è forse un'altra condotta maggiore per condurci alla nostra eterna salvazione ?... Oh Dio! E qual'altra cosa maggiore può trovarsi per dargli gusto, quanto il fare sempre in tutto la sua divina volontà e farla sempre perfettamente come vuole, dove vuole, e quando vuole, stando sempre pronti ad ogni suo minimo cenno ? Stiamo dunque indifferentissimi in tutto, acciocché possiamo fare sempre in tutto la volontà divina, con quella somma purità d'intenzione che Iddio vuole da noi».

A questo punto Gerardo si arresta come rapito in una visione la visione della bellezza e della grandezza della volontà di Dio che s'identifica con lo stesso Dio e, dunque, può essere compresa soltanto da Lui: « Gran cosa è la volontà di Dio! O tesoro nascosto ed inapprezzabile, ah si ben ti compiendo: tu sei e tanto vali quanto lo stesso mio caro Dio; e chi può comprenderti se non il mio caro Dio? ».

Il dovere di ogni anima deve essere quello di « cibarsi solo della bella volontà del mio caro Dio... per essere sempre trasformata in una unione perfetta, in una stessa cosa nella bella volontà di Dio ».

E in un trasporto di gioia trasumanante, abbraccia tutto l'universo raccolto sotto le ali della grande ed amabile volontà di Dio « E ciò che fanno gli angioli in cielo, vogliamo fare anche noi in terra. Volontà di Dio in cielo, volontà di Dio in terra. Dunque, Paradiso in cielo, Paradiso in terra».

La conclusione pratica non poteva non corrispondere alla sublimità della premessa. Il santo raccomanda alla madre Priora di non affliggersi delle disposizioni del vescovo, perché « sarebbe lo stesso che lagnarsi di Dio » e si dichiara contentissimo di troncare qualunque corrispondenza con le suore. « Se anche nel mandarmi a salutare, conosceste una minima ombra contro l'ubbidienza, per carità e per amore di Dio, non lo fate, perché io mi contento di tutto. Basta che mi raccomandiate al Signore. Questo voglio perché io ben conosco il fine di questo santo Prelato che vi vuole tutte unite a Gesù. E se io verrò costi, mi asterrò dal chiedergli licenza di parlar con voi... E se il mio Superiore mi manda qualche volta costi, non serve vedervi, perché ci vedremo poi in Paradiso. Ma mentre siamo in terra ci vogliamo far santi con la volontà degli altri e non con la nostra».

è difficile trovare nelle biografie dei santi qualche cosa che si possa paragonare a questo inno alato alla volontà di Dio, divenuta ormai il paradiso della sua anima. Non solo ogni volontà del superiore era volontà di Dio, ma anche ogni suo cenno, ogni suo desiderio. Non c'è quindi da meravigliarsi se Dio abbia voluto premiare tanta fedeltà con una sequela ininterrotta di miracoli.

Racconta il Tannoia che il padre Cafaro, per provarne la virtù, più volte lo avesse comandato mentalmente anche a distanza e sempre al comando fosse seguita l'ubbidienza immediata del santo.

Ma tali episodi diventano più frequenti proprio adesso, sotto il rettorato del padre Fiocchi, con l'avvicinarsi della professione religiosa. Sceglieremo solo un episodio riferito dalla tradizione.

Un giorno il padre Fiocchi lo inviò con una lettera a Lacedonia. Egli prese il cavallo e parti, volentieri come sempre. Era già lontano, quando il Rettore, rimasto solo e ripensando alla lettera, si accorse d'aver tralasciato un particolare importante. « Ah se Gerardo fosse ancora qui! », esclamò con un sospiro.

Dopo un po' di tempo, Gerardo bussò alla porta: « Sia lodato Gesù e Maria! » ed entrò.

« Ah sei tu! ». La faccia pienotta del padre Fiocchi ebbe un movimento di sorpresa : « Beh, Gerardo, che t'è successo ? ».

« Nulla; lei mi voleva ed io son venuto ». E con una genuflessione, gli porse la lettera. Poi la rimise in tasca e ripartì veloce. Questa miracolosa sintonia telepatica coi voleri inespressi dei superiori era il premio più vistoso del cielo all'abdicazione integrale della propria volontà, al costante dominio delle proprie reazioni interiori. A questo dominio che è la vittoria continuata della grazia sulla fragilità della natura ricalcitrante, si volle obbligare con un voto, il voto del più perfetto di cui darà l'esatta portata nel Regolamento: il voto del più perfetto è il voto di fare: « quello che a me pare il più perfetto avanti a Dio; esso s'estende a ogni opera, a ogni minuzia quale sarò in obbligo di fare con la maggiore mortificazione che a me pare innanzi a Dio, presupponendo averne sempre la licenza affinché proceda con sicurezza».

Il più perfetto dunque s'identifica con la massima mortificazione, la massima mortificazione coincide con la vittoria sulla massima ripugnanza della natura. Il più perfetto s'estende non solo alla sostanza dell'azione, ma anche a ogni minuzia, cioè a quelle sfumature che sono il segno caratteristico dell'amore.

Con tali propositi si raccolse nel ritiro che doveva precedere la professione religiosa. Era un evento troppo importante per lui che aveva cercato solo e sempre la croce, ora lasciarvisi inchiodare coi tre chiodi dei voti. Perciò prima che la sua anima si configurasse su quel patibolo di morte, volle salirvi ancora una volta e saggiare le sue forze.

Ai piedi del collegio, si vede anche oggi una grotta scavata nella roccia e contornata da una muriccia ricoperta di terra e di erbacce, dove si annidano i ramarri e le serpi. Al tempo della nostra storia, l'accesso era meno impervio, e vi si poteva entrare con relativa facilità.

Ivi si rifugiò il nostro santo. Da quella grotta il mondo si perdeva di vista: appena un lembo di cielo entrava per un pertugio tondo, come una visione dell'aldilà. Infatti il terreno della grotta scende, sprofondandosi, fino alla pianura di Puglia. Ultimo lembo del mondo sfuggito, la vetta violacea del Gargano che si confonde col cielo. Seppellita tra quei sassi, l'anima di Gerardo si sprigionava dalla terra come quella vetta lontana che era terra e pareva cielo, e saliva, saliva oltre la trasparenza dell'aria, fino a Dio.

Eppure non era ancora soddisfatto. Da un lato della grotta una rozza croce di quercia lo invitava tra le sue braccia e ripeteva continuamente l'invito. E Gerardo ubbidì. Cominciò col cercarsi gli amici, cioè coloro che dovevano procurargli il tesoro più prezioso e invidiabile: la Croce. E si rivolse ai suoi figliuoli spirituali: Francesco Teta, il disperato di Sant'Agata, divenuto ormai un penitente coraggioso ed eroico, e un giovanotto di Lacedonia, nerboruto come un querciolo, Andrea Longarelli che aveva trascinato alla vita religiosa con l'esempio delle sue virtù.

Entrava dunque nella grotta, seguito da questi discepoli, e li supplicava di dargli il tesoro della Croce. Lo chiedeva con tali lacrime, da vincere ogni ripugnanza. Sicché i due carnefici per forza lo legavano alla grossa croce di quercia e cominciavano a batterlo e flagellarlo senza pietà con funi inzuppate di acqua. La pelle si gonfiava, le carni diventavano livide, si squarciavano e il sangue sprizzava in abbondanza. Allora essi s'intenerivano e cessavano di battere e Gerardo ancora a pregarli, a scongiurarli. Quando non riuscivano le preghiere, ricorreva ai comandi. La sua volontà era talmente energica che spezzava le ripugnanze: e Non ci vuole altro battete per ubbidienza! ».

Una volta si fece flagellare più aspramente del solito; poi si fece calcare a forza sulla testa una corona di spine pungentissime, di quelle che producono gli asparagi, in ultimo si fece sospendere alla robusta croce, ma il peso del corpo gravitò talmente sulle mani e sui piedi che le ossa scricchiolarono con violenza e le costole gli si inarcarono. Il dolore fu così grande che credette di morirne. Lo confesserà egli stesso più tardi.

La prova era riuscita e poteva ormai salire sulla Croce della professione religiosa. Lo fece il 16 luglio, festa del SS. Redentore, titolare dell'Istituto. E lo fece con tale trasporto di gioia, di umiltà, di ardore, da sentirsene quasi sopraffatto. Cercherà, dodici giorni dopo, di manifestare questi sentimenti in una lettera al santo fondatore, ma poche volte la sua parola si rivela così impotente ad esprimere i movimenti del cuore. Il saluto iniziale è semplice e affettuoso : «La grazia del Divino Amore stia sempre nell'anima di V.R. e Mamma Immacolata ve la conservi. Amen».

Così pure il ringraziamento: « Padre mio, eccomi prostrato ai piedi di V.R. e sommamente vi ringrazio della bontà e carità usatami, contro i miei meriti, di avermi V. Paternità accettato e ricevuto per uno dei vostri figli».

Ma quando dal superiore, con balzo subitaneo, si slancia fino a Dio, autore d'ogni grazia, allora dall'interno esplode l'amore, la riconoscenza e, specialmente, l'umiltà: « Benedetta sia per tutta l'eternità la bontà divina che mi ha usate tante misericordie e tante grazie, da me poco conosciute e, tra l'altre, questa che nel giorno sacrosanto del nostro SS. Redentore, io già feci la santa Professione e con essa mi consacrai a Dio. O Dio ! E chi fui io e chi sono che ardii di consacrarmi a un Dio ? ».

E il cuore, sospeso tra due immensità : quella della propria miseria e della grandezza divina, si smarrisce in un gorgo indecifrabile di parole e di opposti sentimenti.

Sempre così: quando Gerardo si trova di fronte al suo Dio, scorge troppo addentro la propria nullità per non lasciarsi andare all'impeto del sentimento, come una massa d'acqua che rompe gli argini, scrosciando a valle. Quale meraviglia se in quei momenti la. parola non può seguire le folate del cuore ed il cuore è costretto ad esprimersi al di fuori di ogni logica ? Più che il significato delle singole parole, nella lettera surriferita ci interessa questo balbettio impotente di suoni, testimone eloquente della gioia sovrumana d'essersi consacrato al suo unico padrone Gesù Cristo, d'essergli consacrato con affetto di figlio e dedizione di schiavo e di ribadire ogni giorno le catene della sua schiavitù, i chiodi della sua Croce.

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    I Dati Personali raccolti possono essere utilizzati per finalità di registrazione dell’Utente, ossia per consentire all’Utente di registrarsi al Sito così da essere identificato. Base giuridica di questo trattamento è il consenso liberamente espresso dall’Utente interessato.
    I Dati Personali forniti dagli Utenti che inoltrano richieste o intendono utilizzare servizi eventualmente offerti tramite il Sito, nonché ricevere ulteriori specifici contenuti, sono utilizzati al solo fine di dare riscontro alle richieste o eseguire il servizio o la prestazione richiesta e sono comunicati a terzi nel solo caso in cui ciò sia a tal fine necessario. Base giuridica di questi trattamenti è la necessità di dare riscontro alle richieste degli Utenti interessati o eseguire attività previste dagli eventuali accordi definiti con gli Utenti interessati.
    Con il consenso espresso dell’Utente i dati potranno essere usati per attività di comunicazione commerciale relativi ad offerte di eventuali servizi offerti dal Titolare. Base giuridica di questo trattamento è il consenso liberamente espresso dall’Utente interessato.
    Al di fuori di queste ipotesi, i dati di navigazione degli utenti vengono conservati per il tempo strettamente necessario alla gestione delle attività di trattamento nei limiti previsti dalla legge.
    È sempre possibile richiedere al Titolare di chiarire la base giuridica di ciascun trattamento all’indirizzo info@sangerardomaiella.it.

  3. Modalità di trattamento

    Il Trattamento dei Dati Personali viene effettuato mediante strumenti informatici e/o telematici, con modalità organizzative e con logiche strettamente correlate alle finalità indicate. Il Trattamento viene effettuato secondo modalità e con strumenti idonei a garantire la sicurezza e la riservatezza dei Dati Personali.

    In alcuni casi potrebbero avere accesso ai Dati Personali anche soggetti coinvolti nell’organizzazione del Titolare (quali per esempio, amministratori di sistema, ecc.) ovvero soggetti esterni (come società informatiche, fornitori di servizi, hosting provider, ecc.). Detti soggetti all’occorrenza potranno essere nominati Responsabili del Trattamento da parte del Titolare, nonché accedere ai Dati Personali degli Utenti ogni qualvolta si renda necessario e saranno contrattualmente obbligati a mantenere riservati i Dati Personali.

  4. Luogo

    I Dati Personali sono trattati presso le sedi operative del Titolare ed in ogni altro luogo in cui le parti coinvolte nel trattamento siano localizzate. Per ulteriori informazioni, è sempre possibile contattare il Titolare al seguente indirizzo email info@sangerardomaiella.it oppure al seguente indirizzo postale Via Trinità 41, 85054 Muro Lucano (PZ).

  5. Diritti dell'Utente

    Gli Utenti possono esercitare determinati diritti con riferimento ai Dati Personali trattati dal Titolare. In particolare, l’Utente ha il diritto di:

    • revocare il consenso in ogni momento;
    • opporsi al trattamento dei propri Dati Personali;
    • accedere ai propri Dati Personali e alle informazioni relative alle finalità di trattamento;
    • verificare e chiedere la rettifica;
    • ottenere la limitazione del trattamento;
    • ottenere la rettifica o la cancellazione dei propri Dati Personali;
    • ottenere l’integrazione dei dati personali incompleti;
    • ricevere i propri Dati Personali;
    • proporre reclamo all’autorità di controllo della protezione dei Dati Personali.
  6. Titolare del Trattamento

    Il Titolare del Trattamento è TC65 S.r.l., con sede in Via Trinità 41, 85054 Muro Lucano (PZ), Partita Iva 01750830760, indirizzo email: info@sangerardomaiella.it

Ultimo aggiornamento 27/07/2021