San Gerardo Maiella
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La luce viene dal cielo

Capitolo XXXIII

Quando Gerardo tornò a Caposele, gli ultimi resti della crisi erano ormai sommersi nell'allegria rumorosa del carnevale che dal paese saliva a lambire la collina solitaria di Materdomini. Era un'allegria schietta che distendeva i nervi e preparava gli animi al raccoglimento quaresimale. Perciò veniva intesa quasi come un dovere perfino tra le pareti del santuario.

In quei giorni, approfittando delle ferie, venne da Muro il chierico Donato Spicci, studente di teologia, per un corso di esercizi spirituali, ma specialmente per godere della conversazione con Gerardo di cui ammirava la santità. Era di quelli che condividevano il parere di mons. Moio sull'efficacia straordinaria di una chiacchierata con lui.

D'indole buona e generosa, don Donato aveva i difetti propri dell'età, cioè quella balda sicurezza che gonfia l'ardire di un ragazzo diciottenne, imbottito d'imparaticci indigesti e di disprezzo per gli altri; e ciò gli meritò una saporita lezione del santo.

Questi se ne stava a cucire tranquillamente in guardaroba, quando il giovane gli venne vicino e, tra una parola e l'altra, si mise a sfogliare un libro trovato aperto sul tavolo di lavoro. Era la vita della venerabile suor Maria Crocifissa e l'occhio cadde sul capitolo XII : « Stato di solitudine interna sul Calvario», in cui si narra come ella fosse stata collocata dal Signore in un « disabitato Calvario», di fronte « al Cristo morto sulla Croce che, dimorando immoto e taciturno, fra tante ferite, pene e dolori, spirava nell'animo suo un rigoroso silenzio ».

Anche il santo si era trovato nell'estate precedente in tale stato di solitudine interiore, nell'abbandono totale dalle creature, e nessuno più di lui poteva comprendere per esperienza diretta le parole della serva di Dio. Perciò, avendo osservato la pagina che l'altro stava leggendo, disse: « Queste cose non sono per voi!».

Don Donato ebbe uno scatto di sorpresa, ma Gerardo continuò « Voi siete teologo, eppure son sicuro che non siete capace d'intendere il significato di queste parole».

« E che ? », rispose, punto sul vivo, « non è mica scritto in francese o in ebraico questo libro ! Chi ha un po' di sale nella testa può capirlo ! ».

Gerardo sorrise : « Quand'è così », disse, « leggetemi adagio adagio, con tutta la riflessione, un periodo e poi me lo spiegherete ». « Volentieri! » e s'immerse nella lettura, soppesando ogni parola, ogni sillaba; poi alzò gli occhi, tentando una spiegazione. Niente da fare! Le idee gli si annebbiavano; non riusciva a spiccicare una sillaba.

« Avete letto ? ». « Sì».

« Allora spiegatemi quello che avete letto».

Don Donato moveva la lingua, storceva la bocca, ma le parole non venivano fuori.

Intanto era entrato il dottor Santorelli e osservava dalla porta la scena. Si sforzava di star serio, ma a un certo punto, vedendo che il povero teologo si arrabattava con le mani e coi piedi per non darsi vinto, scoppiò in una risata. Ciò indispettì maggiormente il chierico, il quale, non sapendo più che dire, soggiunse: « Del resto, qui non siamo in teologia!».

« Ah sì ?... », proseguì il santo, « e allora spiegatemi il primo versetto del Vangelo di San Giovanni: In principio erat Verbum ». Era il colmo. Don Donato montò in collera : quel prologo lo aveva studiato proprio bene; lo aveva presentato perfino agli esami, ed ora... non era capace d'imbroccare una parola !

Fortuna volle che Gerardo gli venisse in aiuto con la solita giovialità : « Don Donato mio, lasciate andare la collera e venite qua». Gli tracciò una croce sulla fronte : « Ora leggete e intenderete ogni cosa».

Fu come se a don Donato cascasse una benda dagli occhi e la lingua si sciogliesse da un nodo: cominciò a parlare con tanta proprietà ed energia che gli uscivano dalla bocca, lo confessa lui stesso, parole di paradiso.

Anche un parroco andò a farsi spiegare dal santo alcune pagine del libro: « Il Pastore della buona notte» di mors. Giovanni Palafox. Il libro, un romanzo allegorico-religioso, scritto per combattere la voga dei romanzi erotici e picareschi, vuole spronare ogni cristiano, specialmente i curatori di anime, all'esercizio della virtù, ma il velo dell'allegoria, non sempre chiaro, ne rende difficile la lettura.

Il parroco aprì una pagina sotto gli occhi di Gerardo ed espose le sue difficoltà, ma, per tutta risposta, si sentì tracciare una croce sulla fronte e udì la parola d'ordine: « Leggi mo', in nome della Santissima Trinità!».

Al contatto di quella mano la sua mente si aprì; una luce nuova, improvvisa, diradò ogni dubbio e rese palpabili le idee più astruse. Da allora bastava che aprisse quel libro per sentirsi investito dalla stessa luce.

Intanto don Donato, sempre più ammirato della santità del suo concittadino, lo seguiva passo passo molte ore del giorno. Gli sedeva vicino nel guardaroba e, mentre il santo lavorava, egli leggeva e meditava. Una volta lo trovò alquanto agitato, alle prese con alcuni ritagli di stoffa. Sul tavolo spiccava un piccolo conopeo ricamato in oro. Era una meraviglia: ognuno dei quattro pezzi aveva nel mezzo un disegno eucaristico.

« Bello! », esclamò don Donato.

« Si», rispose Gerardo, « ma ora debbo farne un altro, grande come questo, e la stoffa è tutta qui». E gli mostrò i ritagli sui quali cercava in vano di far quadrare il modello di carta.

Prova e riprova, tutto era inutile: se accostava un capo, scappava l'altro. Dopo ripetuti tentativi, ricorse al padre Caione : « Padre mio, la cosa è impossibile!».

Ma il Padre gli spezzò la parola in bocca: « Non voglio scuse tu ci hai da pensare».

Gerardo si rimise al lavoro, ma a un certo momento si rivolse a don Donato: « Sentite, don Donato, qui le misure non tornano che mi consigliate di fare ? »

« Fammi vedere ! », rispose posando il libro sul tavolo ; provò anche lui, poi si strinse nelle spalle e, alzando il mento, sentenziò « Ad impossibile nemo tenetur ; nessuno è tenuto all'impossibile ! ». E si rituffò nella lettura.

« Ma io debbo far l'ubbidienza e la debbo far presto », continuò Gerardo, come parlando a se stesso, « questa è opera di Gesù Cristo e Lui ci ha da pensare».

Si gettò in ginocchio, con gli occhi al cielo. Poi si rialzò in fretta, come volesse riguadagnar tempo, afferrò la stoffa, la stese sul modello e cominciò a tagliare senza esitazione, fino alla fine. Ne risultarono quattro perfettissimi pezzi, tutti e quattro col disegno dorato nel centro, tra le meraviglie del giovane che stentava a credere ai propri occhi.

Prima di tornare a Muro, don Donato volle dal padre Caione alcune di quelle monete che Gerardo disse d'aver trovato nel buco della serratura. Poi si rivolse a lui direttamente : « Senti, Gerardo, la cognata dell'arciprete Marolda, la signora Rosa Matilde, quella rimasta cieca da tanti anni, ti chiede, per mezzo mio, qualche cosa che la faccia guarire ».

« Il Signore », rispose, « la vuole ancora purificare. Ditele che non pensi a guarire, ma solo a far la volontà di Dio ».

Don Donato tornò alla carica con nuovi argomenti e l'altro sembrò mitigare il suo rifiuto: « Il Signore non la vuole guarire così presto. Perciò per ora si consoli, meditando i dolori di Gesù Cristo ».

Don Donato venne ai ferri corti: « Senti, Gerardo: io dovevo partir questa mattina, ma ti giuro che non me ne vado più, se non mi dai qualche cosa da portare alla povera cieca».

Allora Gerardo si recò dentro un ripostiglio, tornò con una bottiglia piena d'acqua e gliela consegnò con queste parole: « Dategliela con tutta segretezza : non lo sappia nessuno, proprio nessuno ! ».

Giunto a Muro, il giovane trovò ad attenderlo la domestica della signora, ma la congedò, dicendole: « Verrò io stesso domani».

Vi andò, infatti, recando la bottiglia. L'inferma la ricevette con gran fede e, postasi in ginocchio, cominciò subito a bagnarsi gli occhi risecchiti e spenti. Dopo otto giorni era perfettamente guarita.

Cosa meravigliosa! Tutti, racconta lo stesso don Donato, attribuivano la guarigione all'efficacia dei medicinali adoperati; eppure tutti, nel congratularsi con la miracolata, non potevano fare a meno di gridare: « Viva Dio! Viva Dio!».

Quasi contemporaneamente, a Caposele, un'altra donna riaquistava la luce dell'anima, perduta da molti anni. Era una donna dall'apparenza devota, frequentatrice della portineria del collegio e conosciutissima dai Padri che la stimavano persona onesta e devota. Solo qualcuno aveva dubitato di lei, cercando di riportarla sulla via giusta, ma ella si era schermita con abilità: « Oh non ho scrupoli! », aveva detto, evasiva e disinvolta, « conosco molto bene i miei doveri ». Ma questa risposta non convinse Gerardo che un giorno, di punto in bianco, forzò decisamente la porta della sua coscienza. La donna si difese disperatamente, sempre protestando la propria innocenza, finché non si vide scoperti, uno per uno, tutti i peccati, cominciando dai più gravi ed occulti. Allora si diede per vinta e si lasciò condurre dal padre Fiocchi che si trovava in quei giorni a Caposele. Si confessò tra scoppi continui di pianto e si rialzò completamente mutata e decisa a perseverare fino alla morte. A chi, dopo molti anni, le chiedeva di Gerardo, rispondeva con le lacrime di una volta: « è l'angelo che Dio mi ha mandato per liberarmi dall'inferno ! ».

Passato il carnevale e dispersi col grigiore delle Ceneri gli ultimi strepiti del mondo, nel collegio riprese il ritmo ordinario della vita religiosa con il lento snodarsi della quaresima. Ora finalmente il santo, libero dalle soverchie occupazioni esterne, potrà organizzare in tutta l'estensione, il suo sogno di solitudine integrale - aveva desiderato, tornando a Caposele, d'essere seppellito vivo in una stanza - e d'immersione totale nell'Amore. Consumarsi in Dio, passando attraverso il proprio nulla: ecco il suo sogno sublime. La base di partenza sarebbe stata l'umiltà; il punto di arrivo, l'Amore. Perciò si diede a scavare in se stesso; a svuotarsi di ogni egoismo : a purificare, insomma, la sua umiltà. Una umiltà che abbracciava non solo la zona dell'intelligenza, ma compenetrava perfino il sentimento. Si sentiva molto al di sotto degli straccioni ai quali prestava l'assistenza; al di sotto dei peccatori che convertiva alla grazia. Il confronto gli riusciva facile, spontaneo, emotivo fino al pianto.

Un giorno era capitato in casa un corriere fradicio di fango e di pioggia. Gerardo, mentre lo colmava di premure, disse ai presenti « Vorrei esser privo di tutto e trovarmi nello stato di questo poveretto. Guardate com'è ridotto per guadagnarsi un pezzo di pane! Ed io!... Ed io!... ». Non poté continuare per il pianto.

L'umiltà, come annientamento di orgoglio, come distruzione della propria volontà e del proprio giudizio, lo spingeva verso le vette dell'amor puro, nell'unione trasformante di Dio. L'ascensione però si compiva abitualmente attraverso il ritmo ordinario della vita comune, con quelle piccole e metodiche azioni scandite dal suono della campanella, con quelle preghiere vocali prescritte dalla regola che fondevano la sua voce con la voce dei confratelli. Tutti i carismi di cui fu abbondantemente ripieno non escludono, anzi presuppongono la lenta trama della vita del chiostro dalla quale non tentò mai di evadere, nonostante la fierezza dei suoi mali. I miracoli, per quanto frequenti, costituiscono sempre l'eccezione ; e così quelle illustrazioni sui misteri della vita trinitaria. I primi non gli risparmiavano quelle soggezioni alle leggi fisiche dalle quali tutti vorrebbero essere liberati, perché considerate come una schiavitù ; le seconde non escludevano la lotta abituale contro la dissipazione delle potenze interiori e l'applicazione anche faticosa dell'intelligenza all'acquisto di quelle verità che formano il corredo morale di un uomo della sua condizione sociale. Niente di più errato del considerarlo un dotto nel significato comune del termine. Gerardo dovette sudare per arrivare a leggere e capire approssimativamente un libretto di devozione scritto in latino e si fece aiutare da un chierico redentorista. Alle volte, questi racconta, egli non riusciva a connettere insieme una parola con l'altra; altre volte procedeva più spedito, proprio come avviene nei discepoli mediocremente dotati. Questi balbettamenti hanno il valore delle azioni più prodigiose, perché è sempre Dio che le illumina e le rende preziose. Ma questi balbettamenti sono anche istruttivi perché richiamano la nostra attenzione sui ne-cessari presupposti di questa santità che s'impone sulle masse solo in virtù degli strepitosi episodi, mentre, invece, attinge le sue linfe più nutrienti nell'oscuro sottosuolo delle azioni ordinarie. Ammiriamo pure gli episodi così splendidi, così numerosi, ma, ammiriamoli come il frutto più appariscente di una somma di virtù nascoste come i bacini montani sono il risultato dei mille rivoli che li alimentano ; come i vulcani eruttano il magma stratificato lentamente nelle loro viscere.

Anche Gerardo accumulava ininterrottamente nel proprio interno incentivi possenti di amore. Quale meraviglia se poi, quando la misura era colma, fosse costretto ad esalarli impetuosamente all'esterno ? Allora un estro gagliardo lo scuoteva, gli accelerava il cuore, gli serrava la gola, tanto da costringerlo ad emettere dei sospiri che rintronavano la casa. Fu ripreso bruscamente dal Padre Cafone, ed egli, per tutta risposta, gli afferrò la mano, portandosela al petto. Il cuore sbatteva come per squarciargli lo sterno. Lo stesso fenomeno fu osservato dal dottor Santorelli che arrestò la mano sotto l'impeto di quel cuore impetuoso come un cavallo impazzito. E il santo, leggendogli lo stupore sul viso: « Ah, Dottore, disse; se fossi sopra a una montagna, vorrei coi miei sospiri incendiare tutto il mondo! ».

Consapevole di queste sue condizioni, Gerardo amava allora pregar da solo, possibilmente all'aperto, spaziando gli orizzonti sconfinati e la volta profonda dei cieli.

Una volta fu trovato dal Padre Caione, durante la siesta pomeridiana, in una stanza solitaria, davanti al balcone aperto sulla valle del Sele, alternando a voce spiegata atti d'amore verso Dio e atti di dolore per i propri peccati. Bastava la più piccola eccitazione, perché tutta quella forza interna si mettesse in ebollizione, cercandosi un varco all'esterno. Allora era costretto a correre, a danzare, a volare, con tutti quei movimenti che all'uomo ordinario possono sembrare anormali. Ma l'anormalità dei santi è la logica dello Spirito che muove i loro impulsi interiori.

Un giorno, il santo passeggiava col dott. Santorelli nel piazzale interno della casa, parlando di Dio. Le parole erano placide come i loro passi, come la campagna intorno con le piante ancora spoglie, tra cui spiccava il colore biancocarnicino dei mandorli in fiore. A un tratto giunsero le note di un flauto, poi una voce dolce e mesta che si esprimeva nel canto. Era un povero cieco che veniva ogni giorno a ritirar l'elemosina dalla portineria. Passava rasente le mura esterne, cantando la canzoncina composta due anni prima da Sant'Allonso per consolarsi della morte del Padre Cafaro : « Il tuo gusto e non il mio - voglio solo in Te, mio Dio!».

Il santo si arrestò un momento come per afferrar bene la nota, poi ripeté a voce alta: « Il tuo gusto e non il mio; il tuo gusto e non il mio! », alzando a mano a mano la voce, a seconda dell'impeto interno che l'assaliva e l'invadeva tutto. Poi si diede a correre, a saltellare qua e là, sempre ripetendo a voce alta le parole del canto, mentre il Santorelli, rimasto solo, lo contemplava meravigliato.

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Ultimo aggiornamento 27/07/2021